1 febbraio 1893. Su una carrozza ferroviaria in transito sulla linea Termini – Palermo si consumava uno dei più efferati delitti della storia del nostro paese. Quel giorno veniva ucciso Emanuele Notarbartolo, ex direttore del Banco di Sicilia e notabile politico isolano legato allo schieramento delle Destra Storica. Si trattava di un delitto di stampo mafioso, reso possibile da una pericolosa interazione che legava un membro dell’èlite isolana, il deputato Raffaele Palizzolo, ad alcuni esponenti della criminalità organizzata siciliana, appartenenti alla cosca mafiosa di Villabate.

Come fu possibile, nell’Italia di fine Ottocento, la realizzazione di un simile atto criminale? Più di cento anni prima di Capaci e del periodo stragista che caratterizzò l’Italia degli anni Novanta?

Innanzitutto, è opportuno mettere in risalto un aspetto che non va sottovalutato: nell’Italia di allora si parlava spesso di mafia. Il termine “mafioso” venne utilizzato per la prima volta in una commedia popolare di grande successo, intitolata I mafiosi de la Vicaria, ambientata nel 1854 tra i camorristi detenuti nel carcere di Palermo. Nel 1865, all’interno di un rapporto ufficiale, il prefetto di Palermo Filippo Gualtiero utilizzava l’espressione “maffia o associazione malandrinesca”[1]. Oltretutto, intorno agli anni sessanta del XIX secolo, in molti dizionari di dialetto siciliano e lingua italiana veniva riportata la parola Mafia, sovente interpretata come una sorta di “azione, parola o altro di chi vuol fare il bravo”.

Nel 1876, durante un’inchiesta privata realizzata in seguito ai terribili eventi della Rivolta di Palermo (1866), l’intellettuale e politico toscano Leopoldo Franchetti rilevò come nell’isola le relazioni sociali avessero un’indole esclusivamente personale, dando luogo a forme estese di clientelismo e a un’infinità di associazioni prive di regole:

 

Queste vaste unioni di persone d’ogni grado, d’ogni professione, d’ogni specie, che senza aver nessun legame apparente, continuo e regolatore, si trovano sempre unite a promuovere il reciproco interesse, astrazion fatta da qualunque considerazione di legge, di giustizia e di ordine pubblico: abbiamo descritto la mafia , che una persona d’ingegno, profonda conoscitrice dell’ Isola ci definiva nel modo seguente: “La Mafia è un sentimento medioevale; mafioso è colui che crede di poter provvedere alla tutela e all’incolumità della sua persona e dei suoi averi mercé il suo valore e la sua influenza personale indipendentemente dall’azione dell’autorità e delle leggi[2].

 

Franchetti non coglieva la natura organizzativa che contraddistingue la mafia siciliana rispetto al criminale comune.

Tuttavia, la sua analisi (vi invito a leggere la sua inchiesta ) riusciva nell’intento cruciale di mostrare come le élites isolane avessero giocato un ruolo importante nella costruzione di un potere basato sul controllo delle risorse locali, economiche e politiche. Una costruzione di un potere che prevedevaun consolidamento possibile grazie ad alcune interconnessioni che legavano élites e mafiosi o, in precedenza, briganti. Già, perché la Sicilia ottocentesca venne percossa da una serie di eventi che hanno avuto per oggetto relazioni e incontri tra la “piramide alta” della società e il “basso”, rappresentato dall’universo criminale. Pensiamo alla rivolta di Castellamare del Golfo (1 gennaio 1962) dove l’ordine verrà riportato grazie ad alcuni uomini la cui provenienza dalle file del mondo mafioso è alquanto sospetta. Pensiamo alla rivolta di Palermo (16 – 22 settembre 1866), dove una parte del disordine proveniva da bande malavitose organizzate e vicine ad esponenti politici locali. Pensiamo alla dura opera di repressione nei confronti di briganti e mafiosi portata avanti dal prefetto della Sinistra Storica, Antonio Malusardi, resa possibile grazie all’aiuto di notabili locali (come il già citato Palizzolo) legati ad alcune reti criminali.

L’Italia di fine secolo, sedimentata da anni di interazioni tra élites e universo criminale offriva il contesto adatto per possibili azioni criminali e “consolidanti” del potere locale. I diversi governi che si succedettero nel corso del decennio ponevano al centro delle loro rispettive agende politiche la restaurazione di uno status quo dell’ordine sociale siciliano, possibile soltanto attraverso una dura repressione nei confronti dei movimenti scaturiti tanto dalla nascita dei Fasci Siciliani (1891), quanto dall’azione sociale promossa dal neonato Partito Socialista Italiano (fondato nel 1892).

Secondo lo storico Raffaele Romanelli, “fu così compiuto il più energico tentativo di restaurazione messo in atto, sul finire del secolo, dei gruppi liberali”[3]. La classe dirigente dell’epoca vedeva nella Sicilia soltanto un problema di ordine pubblico, causato perlopiù da istanze radicali e sommovimenti sociali ritenuti eversivi. Questo ci aiuta a capire, in parte, come non fu affatto semplice avviare un’istruttoria volta a scovare l’autore (o gli) del delitto Notarbartolo.

Leopoldo Notarbartolo Immagine tratta da R.Poma, Onorevole Alzatevi!, Firenze, 1976.

Torniamo al punto di partenza. 1 febbraio 1893. L’uccisione dell’ex direttore del Banco di Sicilia non passò inosservata. Si trattava di un importante notabile politico isolano, apprezzato da molti per la sua integrità morale e le capacità amministrative dimostrate nel tempo (fu anche Sindaco di Palermo). L’azione investigativa ricevette un forte impulso e sostegno da parte dei familiari della vittima, soprattutto nella persona del figlio Leopoldo, determinato a scovare i colpevoli dell’omicidio. I primi indizi vertevano su due ferrovieri (Pancrazio Garufi e Giuseppe Carollo) presenti sulla carrozza al momento dell’uccisione, ritenuti possibili complici o autori materiali del delitto. Nel proseguimento delle indagini, i sospetti caddero su Giuseppe Fontana, mafioso appartenente alla cosca di Villabate. Salvatore Diletti, capostazione di Termini Imerese, confidò all’allora questore di Palermo, Michele Lucchesi, di averlo riconosciuto tra i viaggiatori del treno, all’interno della stessa cabina dell’assassinato. Tuttavia, al momento della convocazione in tribunale dinanzi al magistrato titolare dell’inchiesta, un certo Trasselli, quando gli vennero mostrate 5 persone differenti – tra cui Fontana – Diletti negò di riconoscere il possibile sicario di Notarbartolo. L’istruttoria venne così chiusa per insufficienza di prove. Ci troviamo nel 1895. Fontana venne completamente scagionato. Caddero pure le accuse nei confronti dei ferrovieri Carollo e Garufi. Si concluse così la prima parte del complesso iter giudiziario dell’omicidio Notarbartolo. Il nome di Palizzolo non figurava ancora tra i possibili sospettati.

Per la riapertura delle indagini si rivelarono fondamentali alcune direttive politiche, provenienti direttamente da Roma. Durante il biennio 1896 – 1897 il governo italiano era presieduto dal marchese Antonio Di Rudinì, amico personale di Notarbartolo e leader della Destra isolana. Il titolare del Ministero decise di creare una nuova istituzione, il Commissariato Civile per la Sicilia, organo che si riteneva in grado di estirpare il predominio delle clientele locali isolane. L’incarico venne conferito al conte imolese Giovanni Codronchi, esponente politico della Destra. Nell’aprile del 1896, a nomina non ancora avvenuta, Codronchi esprimeva all’allora presidente del Senato Domenico Farini i suoi “propositi” intorno al caso Notarbartolo:

 

Tutti sanno chi fu il mandatario, chi fu il mandante. La giustizia si è fermata davanti a qualche pezzo grosso amico di Crispi (….). Ho detto al Rudinì che non intendo arrestarmi davanti ai suoi amici, al deputato Palizzolo, per esempio. Rudinì mi ha risposto: sta bene, Palizzolo è una canaglia[4].

 

Palizzolo, al di dell’essere “canaglia”, rappresentava uno dei pochi riferimenti politici sicuri per Di Rudinì e la destra isolana, indebolitasi fortemente all’indomani della cocente sconfitta delle elezioni del 1874[5]. Una volta giunto a Palermo, Codronchi ricevette immediatamente il deputato palermitano. Leopoldo Notarbartolo, quando si recò dal Commissario per sollecitare la riapertura delle indagini si trovò in una spiacevole situazione:

 

Allorché Codronchi aveva fatto il suo ingresso ufficiale a Palermo, aveva seduto a fianco in carrozza, Palizzolo. E, la prima volta che mi presentai dal Commissario Civile, per farne la conoscenza, e metterlo a giorno del processo, l’anticamera fu lunga: Palizzolo era a conciliabolo e non uscì tanto presto[6].

 

In poco tempo, Codronchi e Palizzolo avviarono un vero e proprio sodalizio, incentrato su un fitto scambio di informazioni e suggerimenti sullo stato dell’amministrazione locale siciliana.

Tuttavia, l’idilliaco legame era destinato a vita breve. Codronchi infatti, aveva ricevuto direttive precise da Dì Rudinì: doveva occuparsi della riapertura del processo Notarbartolo. A tal fine, si avvalse della collaborazione del questore Lucchesi e del procuratore generale Vincenzo Cosenza, figura alquanto discutibile e legata a Raffaele Palizzolo. Grazie alle dichiarazioni di un detenuto, Augusto Bortolani, riuscirono in poco tempo a riaprire le indagini. Costui dichiarava che l’assassinio sarebbe stato compiuto da Fontana, per ordine “di alto mandante”. Sulle ragioni dell’omicidio avrebbe influito il paventato ritorno di Notarbartolo alla direzione del Banco di Sicilia.

Perché vi erano timori così elevati dinanzi al prospettato ritorno di Notarbartolo al Banco di Sicilia? Chi aveva interesse a disfarsi della figura ingombrante del Direttore? Chi era in grado di organizzare un simile delitto?

Palizzolo era uno dei membri del consiglio generale del Banco. Tale organismo era costituito da 50 membri, rappresentanti delle istanze della società civile riferibili alle province e alle Camere di Commercio. Nella realtà concreta, però, si configurava come un contropotere politico/clientelare, avverso alla struttura verticale del Banco.

Raffaele Palizzolo       Immagine tratta da R. Poma, Onorevole Alzatevi!, Firenze, 1976

In una lettera dell’aprile 1889, inviata all’allora ministro dell’agricoltura del governo Crispi Luigi Miceli, Notarbartolo sosteneva che diventava sempre più “difficile se non impossibile di amministrare con sicurezza di tutelare gli interessi delle istituzioni”, perché i membri del Consiglio generale del Banco intendevano avvalersi di non chiari poteri dell’organismo per “asservire la Direzione generale e le commissioni di sconto (…) invadere tutti i campi”[7]. Notarbartolo chiedeva al governo di intervenire, per garantire una maggiore efficienza all’interno dell’istituto creditizio, troppo spesso in balia delle clientele locali. Il 23 aprile 1889 questa lettera “personale” venne trafugata dal tavolo del ministro e ricomparve misteriosamente, in copia, nella seduta del 19 maggio del Consiglio generale (con il direttore del Banco assente). In quell’occasione, Palizzolo “attaccò il Notarbartolo dicendolo incapace di giudicare lui ed i colleghi, tacciandolo di prevaricazione per le accuse mosse ai consiglieri che erano tali da anni e proponendo un voto di sfiducia che fu deliberato”[8]. La delibera venne annullata dal Ministero, poiché tra le facoltà previste dal Consiglio non vi era quella di poter sfiduciare il direttore generale. Palizzolo ottenne però il risultato sperato: il 6 febbraio del 1890, l’allora presidente del Consiglio Francesco Crispi decretò lo scioglimento delle cariche direttive del Banco di Sicilia, assieme a quelle del Banco di Napoli. Nel febbraio del 1891, momento in cui la direzione dell’istituto creditizio venne affidata a Giulio Benso duca di Verdura, iniziò una gestione finanziaria dissennata del Banco. Il nuovo direttore, fervente crispino e azionista delle Navigazioni Generali Italiane, compagnia di navigazione appartenente alla potente famiglia dei Florio, inaugurò una stagione di operazioni finanziarie spericolate, che causarono un’ispezione direttamente voluta dal Ministero del Tesoro, all’epoca guidato da Giovanni Giolitti. Il paventato ritorno di Notarbartolo al Banco, quindi, sarebbe stato fortemente voluto da uomini politici come Dì Rudinì e Miceli, i quali avevano apprezzato la sua gestione al Banco di Sicilia.

Ma perché sarebbe stato proprio Palizzolo a volere la morte dell’apprezzato direttore? In fondo, erano numerosi i nemici e le persone interessate a disfarsi di Notarbartolo. Non tutti, però, potevano vantare le relazioni del deputato palermitano con l’universo criminale. Come amministratore di opere pie, membro di numerose commissioni cittadine, consigliere comunale e deputato del Regno, Palizzolo vantava una rete clientelare che comprendeva persone di ogni genere. Non mancavano personaggi discutibili e provenienti dalle file della criminalità. Nel 1877, durante la prefettura di Malusardi, caratterizzata da una dura offensiva contro le bande brigantesche, il deputato ricevette una minaccia di ammonizione se non avesse ritirato la sua candidatura al Parlamento[9]. Palizzolo si ritirò dalla tornata elettorale. E, per rientrare nelle buone grazie delle autorità, utilizzò le proprie relazioni con il mondo criminale, rendendosi così utile all’attività repressiva. A Sud – Est di Palermo, a Mezzomorreale, a Villabate e a Ciaculli, il politico chiacchierato possedeva diversi terreni ed aveva solide relazioni con gli ambienti dei guardiani, dei gabellotti e dei fontanieri, dove forte era la presenza mafiosa. Come fontaniere, ad esempio, Palizzolo impiegava nella sua dimora di Malaspina un certo Giacomo Lauriano detto “Jacuzzo”, mafioso uscito assolto dal processo del 1882 contro la cosca dei fratelli Amoroso[10]. In diverse occasioni egli intervenne presso le autorità al fine di garantire al Lauriano il porto d’armi o altri tipi di favori. Infine, era risaputo che Palizzolo vantasse solide relazioni con la cosca di Villabate, dedita prevalentemente a rapine, abigeati e persino all’attività politica. Uno dei castaldi personali del deputato era Matteo Filippello, mafioso, anello di congiunzione con la cosca e in stretto rapporto con Giuseppe Fontana, il principale indiziato come esecutore materiale del delitto.

Il processo Notarbartolo alle Assise di Milano. La Gabbia degli imputati Disegno realizzato da A. Beltrame   Da La Domenica del Corriere, 10 dicembre 1899

Riprendiamo il racconto dell’iter giudiziario. Le dichiarazioni del detenuto Bortolani diedero un forte impulso alle indagini. Il 14 gennaio del 1899 la Corte d’Assise emise una sentenza di rinvio a giudizio per i ferrovieri Carollo e Garufi. La Parte Civile, nella persona di Leopoldo Notarbartolo, insoddisfatta di come stavano procedendo le ricerche, ottenne che il processo venisse celebrato, per legittima suspicione, a Milano. Durante lo svolgimento delle prime udienze nella città lombarda, il figlio della vittima accusò apertamente Palizzolo, reo di aver ordito l’omicidio. In seguito ad alcune testimonianze, provenienti soprattutto da funzionari di pubblica sicurezza, emersero chiaramente le relazioni mafiose che ruotavano attorno al deputato e la caratura criminale di Giuseppe Fontana. L’andamento del processo preoccupava il mondo politico dell’epoca, timoroso delle possibili ripercussioni. Molti esponenti politici erano pronti a scaricare Palizzolo. L’8 dicembre di quell’anno, la Camera dei Deputati, su proposta dell’allora presidente del consiglio Pelloux, sospendeva le comunicazioni telegrafiche tra Roma e Palermo, e, con una procedura che calpestava le consuetudini parlamentari, ottenne un voto favorevole all’arresto di Raffaele Palizzolo[11], eseguito con celerità. Fu la volta poi di Giuseppe Fontana, il quale venne arrestato nella tenuta palermitana del potente principe Mirto. Quest’ultimo lo aveva assunto in qualità di soprastante, con il compito di garantire protezione e sicurezza all’interno dei suoi possedimenti. Per arrestarlo, le autorità furono costrette a garantirgli alcuni privilegi, tra cui concedergli un salvacondotto di 24 ore per visitare i suoi parenti.

Emanuele Notarbartolo Immagine tratta da R. Poma, Onorevole Alzatevi!, Firenze, 1976

Il 10 gennaio del 1900, il processo di Milano venne sospeso e iniziò una nuova istruttoria a Palermo, in seguito ai nuovi elementi emersi all’interno del dibattimento. Il 20 dicembre dello stesso anno, la Sezione di Accusa pronunziava una sentenza di rinvio a giudizio per Raffaele Palizzolo e Giuseppe, il primo, accusato di concorso morale, il secondo, di concorso materiale nell’uccisione di Emanuele Notarbartolo. Si procedette quindi all’istituzione di un nuovo processo, stavolta alla Corte d’Assise di Bologna. Il nuovo dibattimento giudiziario durò dal 9 settembre 1901 al 31 luglio del 1902. La mole dei testimoni uditi era impressionante: ben 503. Tra di essi figuravano ex ministri, deputati, senatori, prefetti, questori e funzionari di pubblica sicurezza. Le udienze vennero seguite con attenzione dai corrispondenti delle principali testate nazionali. La mafia era al centro della discussione pubblicistica e destava curiosità e preoccupazione nell’Italia di allora. Il 31 luglio, il presidente della Corte lesse il verdetto: Raffaele Palizzolo e Giuseppe Fontana vennero dichiarati colpevoli e condannati a trent’anni di reclusione. Il procedimento di Bologna si concludeva con una sentenza in grado di porre la parola fine alle estenuanti vicende del caso Notarbartolo. Così pareva, a prima vista. Tuttavia, la sentenza non venne accolta positivamente in Sicilia da ampi strati sociali, soprattutto quelli maggiormente compromessi con Palizzolo. Nacque così un comitato, il “Pro Sicilia”, costituito da importanti uomini politici ed esponenti della società civile palermitana. Esso si prefiggeva come scopo quello di difendere l’onorabilità siciliana, impunemente offesa dal verdetto di colpevolezza nei confronti del deputato, “cittadino estimabile” e “benefattore della collettività”. In realtà, l’obiettivo era quello di trovare alcuni elementi in grado di riaprire il caso e scagionare Palizzolo. Cosa che puntualmente avvenne. Il 27 gennaio del 1903 la Corte di Cassazione di Roma annullava la sentenza di Bologna, a causa di un mancato giuramento di un testimone durante il dibattimento. Si doveva ricominciare daccapo. La sentenza della Cassazione rinviò il processo alla Corte d’Assise di Firenze. Il nuovo procedimento giudiziario iniziò il 5 settembre del 1903 e termino il 23 luglio del 1904. Numerosi testimoni – che erano presenti a Bologna – non si presentarono alle udienze del nuovo processo. Alcuni di essi, ritrattarono le loro accuse nei confronti di Palizzolo e negarono decisamente l’esistenza della mafia. Il clima intorno al caso Notarbartolo era mutato. Non vi era più interesse a parlare di mafia. Il verdetto non poteva che arridere agli imputati. Palizzolo e Fontana vennero così scagionati e assolti per insufficienza di prove.

Si conclusero così le vicissitudini giudiziarie legate all’omicidio di Emanuele Notarbartolo, la prima vittima della mafia siciliana.

Un omicidio privo di assassini, giuridicamente parlando.

 

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[1] Cit. in Paolo Alatri, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra (1866 – 1874), Einaudi, Torino, 1954, p. 92.

[2] Leopoldo Franchetti, Condizione politiche e amministrative, G. Barbera, Firenze, 1896, p. 38.

[3] Raffaele Romanelli, L’Italia Liberale (1861 – 1900), Il Mulino, Bologna, 1979, p. 365.

[4] Domenico Farini (a cura di) Emilia Morelli, Diario di Fine secolo, Bardi, Roma, 1961, vol. II, p. 908.  

[5] Per ulteriori approfondimenti, rimando a: Giulio Procacci, Le elezioni del 1874 e l’opposizione meridionale, Feltrinelli, Milano, 1956.

[6] Leopoldo Notarbartolo, La città cannibale. Il memoriale Notarbartolo, Novecento, 1995, p. 226.

[7] Romualdo Giuffrida, Il Banco di Sicilia, Palermo, 1971, p.328.

[8] Salvatore Lupo, Tra banca e politica: Il delitto Notarbartolo in Meridiana, Rivista di Storia e Scienze Sociali, N.2, 1998, p. 143.

[9] Ibid., p. 138.

[10] Rapporto Sangiorgi, Relazione XIV, pp. 4 – 5.

[11] Tornata dell’8 dicembre 1899, Camera dei Deputati, http://archivio.camera.it/patrimonio/archivio_della_camera_regia_1848_1943/are01o/documento/CD110005.