Sono tornato da non molto in Italia dopo sei mesi passati all’estero, in Francia, e subito mi ha assalito un senso di frustrazione che prosciuga ogni voglia di fare, politicamente parlando.

Quando ero in Francia seguivo con attenzione cosa accadeva nel mio paese natale, ma con distacco: non ero immerso nel contesto. Ciò mi permetteva di essere più propositivo e di ritrovare la voglia di aiutare a cambiare, nel mio piccolo, la politica italiana. A dirla tutta ero in parte aiutato dal paese in cui vivevo: in Francia, pur con tutti i limiti ed i difetti del caso, il dibattito è a mio avviso più stimolante perché incentrato maggiormente sul binomio critica-proposta. Inoltre, le istituzioni sono ben più forti rispetto al nostro paese perché rispettate.

Ieri sera, mentre assistevo allo svolgersi degli eventi, mi sono sentito deluso senza sapere bene il perché visto che i due partiti che avrebbero dovuto formare il governo, Lega e 5 stelle, non sono certo i partiti che ho votato. Poi ho capito: ero di fronte all’ennesima piroetta di politichetti che pensano solamente al proprio tornaconto, che preferiscono delegittimare un’istituzione politica, quella del presidente della Repubblica, piuttosto che fare il bene del paese. Ero e sono di fronte ad una politica stanca, priva di slancio per il futuro, in cui i cittadini non fanno che dividersi in maniera partigiana piuttosto che proporre, dimentichi che ad ogni diritto corrisponde un dovere, spesso ignoranti del meccanismo di formazione del governo nella penisola, cioè privi di conoscenza del nostro sistema costituzionale.

Si parla tanto del governo degli italiani. Ma che cosa vuol dire questa espressione? Assolutamente niente, essa è nata a seguito delle elezioni ed è utilizzata da Lega e 5 stelle per portar avanti le proprie istanze di potere appoggiandosi alla memoria corta di questo paese.

La Lega e Matteo Salvini sono stati eletti nella coalizione di centro destra; i 5 stelle e Di Maio sono stati eletti come 5 stelle. La coalizione, se così si può definire, che riunisce questi due gruppi politici è frutto del post-elezioni, il che significa che non è stata votata dagli italiani perché questi hanno votato la Lega nella coalizione con FDI e Fi e i 5 stelle per conto proprio.

Per di più Salvini ha preso molti meno voti rispetto a Di Maio il quale si è trovato in una posizione di subordine rispetto a Salvini che ha guidato e tenuto in mano le trattative. Ciò dimostra la totale inettitudine del candidato grillino che non ha saputo, inoltre, tenere a freno gli attacchi recenti di Di Battista al Colle che hanno contribuito in maniera significativa a questa crisi.

Per di più: Mattarella ha dovuto esortare, con parole dure ma efficaci che rientrano nelle sue prerogative, i due leader a formare un governo.

Mattarella ha dimostrato grande pazienza in questi mesi e disponibilità all’ascolto, ma è nei suoi poteri la scelta sia del presidente del Consiglio dei ministri che dei ministri stessi. Il nostro, infatti, non è un paese che elegge il presidente del Consiglio, nonostante grazie a Berlusconi oggi molti credano il contrario, e non è un paese in cui i cittadini o il primo ministro nominano i ministeri. Tutto ciò è compito del Presidente della Repubblica, i cittadini si limitano ad eleggere i parlamentari: attraverso la maggioranza espressa nel voto emerge un candidato premier il quale deve poi subire il doppio vaglio del Colle e del Parlamento tramite la fiducia. Medesimo iter spetta ai ministri, cioè la governo. L’articolo 92 della Costituzione ci dice infatti che «il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri», proposta che non è vincolante perché il presidente della Repubblica deve vigilare sull’ordinamento, il che significa scegliere ministri che diano delle garanzie al paese.

Mattarella si è opposto alla nomina di Savona per diversi motivi. Innanzitutto ci sono le sue posizioni sull’Europa e l’euro, posizioni mai presentate all’elettorato durante la campagna elettorale quindi non votate. Ma la vera ragione sta nella necessità del presidente della Repubblica di dover difendere l’istituzione che rappresenta. Intorno alla nomina di Savona sia i 5 stelle, nelle parole di Di Maio e negli attacchi di Di Battista del 23 maggio, sia la Lega, paventando il ritorno al voto nel caso Savona non avesse ricevuto il dicastero, hanno costruito una mossa politica che ha tentato di dare un aut-aut a Mattarella. Si è trattato del tentativo di imporre un nome al presidente della Repubblica e ciò rappresenta un limite invalicabile, tanto più che se Mattarella avesse ceduto avrebbe creato un pericoloso precedente che le forze politiche avrebbero potuto sfruttare in molti altri casi futuri.

Mattarella non ha fatto altro che adempiere al suo ruolo, sfruttando i poteri che la Costituzione gli conferisce. Non possiamo accusare il presidente di aver messo ostacoli alla trattativa tra 5 stelle e Lega: ha concesso molto tempo ai due; ha accettato la nomina di Conte nonostante i dubbi (più che legittimi, tra l’altro) sulla sua adeguatezza politica vista la sua assenza di esperienza governativa; non ha criticato nessun nome proposto per i ministeri se non quello di Savona ed anche in quest’ultimo caso ha tentato una mediazione proponendo lo scorporo del ministero dell’Economia in Tesoro e Finanze, lasciando il primo a Giorgetti (della Lega, non di chi sa quale partito!) ed il secondo a Savona: sarebbe stata una soluzione politica. Ma questo ci dimostra una cosa: che Salvini, con tutta probabilità, non è interessato alla formazione del governo ma ad andare alle elezioni forte del fatto che, con tutta probabilità, la Lega potrà vincere o prendere molti più voti rispetto alle ultime votazioni.

Si possono elencare ben quattro casi in cui un presidente della Repubblica ha posto il veto sulla nomina di un ministro. Il primo risale al 1979 quando Pertini pose a Cossiga, che di li a poco sarebbe divenuto presidente del Consiglio, il veto alla nomina di Clelio Darida alla Difesa; il secondo risale al 1994, quando Scalfaro si oppose alla nomina, proposta da Berlusconi, di Cesare Previti come ministro della Giustizia: il nodo fu sciolto con Previti alla difesa e Biondi come Guardasigilli, una soluzione politica di cui oggi avremmo avuto bisogno; il terzo è del 2001, quando Berlusconi propose come ministro della Giustizia Maroni, allora indagato per l’inchiesta sulle camicie verdi, e Ciampi pose il veto: anche in questo caso la soluzione fu politica, con Maroni al Lavoro e Castelli alla Giustizia; la quarta ed ultima è del febbraio 2014, quando Napolitano pose il veto a Gratteri, allora in carica come pm, voluto da Renzi: al posto di Gratteri andò Orlando.

Ma se andiamo ancora più a fondo possiamo ricordare l’esempio di Luigi Einaudi che, nel 1953, insediò il governo Pella senza avvertire i gruppi parlamentari dei vari partiti. Ciò rientrava e rientra nelle prerogative del presidente della Repubblica.

Mattarella sta quindi proteggendo le nostre istituzioni di fronte ad attacchi preoccupanti, come l’assurda possibilità, paventata anche dalla Meloni, di metterlo in stato di accusa. Il rischio di una deriva autoritaria della nostra democrazia non è poi così assurdo. Al giorno d’oggi più che a dittature in vecchio stile assistiamo alla presenza di democrazie autoritarie, ed è proprio ciò che rischiamo di andare incontro con le frasi diffamatorie ed eversive di Di Battista, così come quelle della Meloni, di Salvini, di Di Maio e la possibilità dell’impeachment. Sono tentativi, quelli fatti da queste forze politiche, di snaturare la natura politica del nostro paese diffondendo menzogne su come essa funzioni e su come i suoi rappresentanti vengono eletti e su quali prerogative essi abbiano.

Di fronte ad un clima politico simile, incapace di saper contare sul piano internazionale e di parlare in maniera seria dei problemi per risolverli, mi chiedo come sia possibile non perdere interesse nella politica italiana. Ma bisogna resistere a questa tentazione: è proprio quando si smette di vigilare sulla democrazia, magari perché delusi e stanchi, che essa cede e muta andando verso derive autoritarie.

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