L’Italia ha un debito pubblico di 2.300 miliardi di euro, vale a dire il 131, 8% del PIL. Un paese, il nostro, così rilevante in Europa che potrebbe da solo affondare l’euro, come si rischiò nel 2011 quando sfiorammo la bancarotta rischiando così di danneggiare 440 milioni di cittadini europei.
Solo la Grecia ha un debito pubblico superiore al nostro, pari al 181,3 % del PIL.
Il lavoro degli ultimi governi ha migliorato il nostro stato di salute: il deficit è sotto controllo, il debito sta lentamente calando, l’economia cresce dell’1,5%. Ciononostante la situazione della penisola rimane ancora debole: l’incubo del baratro non è poi così lontano. Infatti, se il differenziale tra Btp e Bund toccasse quota 500 le agenzie di rating potrebbero declassare l’Italia, il che significa che la Bce non potrebbe più utilizzare l’aiuto del Quantitative easing su di noi.
L’aumento del differenziale tra Btp e Bund, concretamente, significa che il prezzo dei Btp scende, perciò chi li detiene subisce una perdita di valore. Un esempio: per ogni risalita dello spread di 100 punti base si ha una perdita di capitalizzazione del 3,7%, un problema che costa caro anche alle famiglie e alle imprese che avranno dalle banche meno disponibilità ad erogare credito e a prezzi più alti. Come si vede l’aumento dello spread non è qualcosa che non va ad incidere nella vita diretta delle persone.
Se tornassimo al 2011, cioè quando lo spread toccò quota 600 punti, che cosa accadrebbe?
Innanzitutto lo Stato, cioè i contribuenti, dovrebbero spendere di più perché la spesa per interessi salirebbe nei prossimi tre anni di 22 miliardi.
La spesa per interessi, cioè la quota della spesa pubblica destinata al pagamento degli interessi, aggrava il deficit pubblico in quanto aumenta il debito. Questo perché un aumento dello spread fa calare la fiducia degli investitori, il che significa che il finanziamento del debito può avvenire solo corrispondendo tassi di interesse più elevati, quindi offrendo rendimenti più alti dei titoli di Stato. Tutto ciò vanificherebbe la riduzione del deficit del 2017, che è infatti da attribuire alla minor spesa per interessi, in calo dell’1,7 % rispetto al 2016 anche grazie al Quantitative easing. Oltre a ciò, se lo spread toccasse nuovamente quota 600 punti, i tassi dei mutui aumenterebbero. Infatti, anche se i tassi di interesse Euribor (su cui si calcolano i finanziamenti a tasso variabile) e Euris (per i mutui a tasso fisso) rimanessero invariati, le banche italiane dovrebbero aumentare la differenza tra quanto pagano il denaro e il tasso a cui lo prestano per far fronte alle minusvalenze che dovrebbero registrare sui titoli di Stato che hanno nel portafoglio. Quando ciò è accaduto l’ultima volta, nel 2012, i tassi dei mutui sono cresciuti del 4%.
Ad un ritorno dello spread a quota 600 punti ci rimetterebbero anche le banche perché per ogni cento punti in più di spread il totale dei titoli di Stato che hanno nel portafoglio si deprezzerebbe di 3 miliardi e mezzo di euro. Infine le conseguenze negative sarebbero anche per le imprese, specie quelle più piccole, che dovrebbero subire un aumento degli oneri finanziari.
Ma chi possiede, ad oggi, i titoli di Stato Italiani? La Bce ne possiede il 16%, molto più rispetto al 2014 quando ne aveva il 4 %. L’aumento è dovuto al Quantitative easing, il che ci fa capire quanto il programma messo in atto da Mario Draghi ci abbia aiutato.
Le banche possiedono invece il 27%: a sua volta questo dato ci fa comprendere perché gli istituti di credito soffrano dei rialzi del differenziale. Il rimanente è divisibile con il 16% posseduto dalla Banca d’Italia, il 32% da stranieri –tra cui anche comuni cittadini che hanno deciso di investire nel nostro paese – ed infine un 19% diviso tra fondi e assicurazioni.
Possiamo criticare o essere d’accordo con il sistema finanziario vigente, ma una cosa è certa: se le cose vanno male a farne le spese saranno i cittadini, soprattutto delle fasce più povere. È facile sostenere una posizione massimalista del «tanto peggio tanto meglio» quando si ha la pancia piena. Altrettanto facile è infischiarsene, per giochetti politici, dello stato di salute dell’economia.
Personalmente sono tra chi sostiene che i cittadini non dovrebbero pagare il prezzo degli errori di chi guida la finanza o il paese. Una cosa va però considerata: la classe politica di un paese è, spesso, lo specchio di quel paese, il che significa che se eleggessimo persone competenti, e che se tutti facessimo il nostro dovere, probabilmente non staremo messi come siamo.
La situazione politica in Italia è ormai preoccupante. Abbiamo assistito allo stallo politico per formare un governo più lungo della storia del paese, ben 89 giorni. Non solo: il Quirinale non è mai uscito così infangato da una crisi, una crisi che coinvolge anche quella dei partiti come il PD incapaci di analizzare la situazione e muovere opposizione di fronte all’inadeguatezza – ma questo è un mio parere – di chi è adesso al governo.
Sono diviso: non so se giudicare il comportamento di chi ha vinto le elezioni come ridicolo o prendere le cose come sono, cioè un grave problema. Diciamo quindi che la situazione è tragicomica.
Di Maio, presentatosi come grande rinnovatore della politica italiana, si è dimostrato totalmente incapace di gestire uno stallo, cioè di mediare tra le varie posizioni politiche: si è trovato in una posizione di subordine rispetto a Salvini che, nonostante abbia preso meno voti, è riuscito a guidare i giochi. Di Conte neanche a parlarne: un signor nessuno, anche all’interno del suo ambiente accademico, che per megalomania ha deciso di prestarsi a fare il burattino. In una situazione complessa come quella attuale e dei mesi precedenti era ed è necessaria una figura politica esperta, che conosca i giochi ed i tranelli della politica ma soprattutto capace di fare il politico, cioè di mediare tra le posizioni trovando così una sintesi che conduca ad un accordo. Accordo che ci dia stabilità, investimenti e forza nel contesto internazionale.
Solamente un governo consapevole della situazione internazionale e in grado di muovervisi perché competente e non traballante, potrà risolvere i problemi che affliggono la penisola. Problemi che, si noti bene, non sono dovuti all’euro o allo spread, ma alla corruzione, all’assenza di investimenti, speranze e aspettative per il futuro, agli sprechi e, soprattutto, alla presenza di tre elementi. Il primo: una classe politica inetta che preferisce mentire e giocare sull’ignoranza per andare al potere piuttosto che risolvere i problemi; il secondo: il chiuso campanilismo della penisola e l’ignoranza ancora troppo diffusa; terzo: i settori dell’economia italiana che si ostinano, per tornaconto, a cercare una situazione che gli permetta di mantenere un contesto economico oligopolistico.
Al primo problema aggiungerei le proposte fatte in campagna elettorale. Secondo un articolo di Les Echos del 1 marzo la valutazione del costo del programma della coalizione di centrodestra si aggirava tra i 170 e i 310 miliardi di euro. Il costo del programma dei 5 stelle, invece, 63 miliardi di euro, il PD a 56 miliardi di euro. E le coperture? Prima le proposte, ha detto Conte, poi i costi. Una risposta un po’ troppo semplice, alla luce di quanto detto fino ad ora visto che oltretutto non c’è alcuna coerenza tra gli obiettivi annunciati e la riduzione del debito pubblico, altro obiettivo che tutti vorrebbero centrare.
Le istituzioni europee si stanno rafforzando, dall’Europarlamento alla Commissione Europea alla Bce, perché stanno lavorando bene. La Bce, ad esempio, sta procedendo, grazie all’opera di Mario Draghi, ad una maggiore integrazione dell’area euro. Ciononostante l’ostilità verso le istituzioni europee è ben palpabile. Pensiamo, ad esempio, alla rielaborazione in chiave sensazionalistica delle dichiarazioni di personaggi di spicco dell’Unione come Juncker. Il Guardian ha riportato il seguente virgolettato: «Gli italiani devono lavorare di più ed essere meno corrotti». In verità il presidente della Commissione ha detto: «Gli italiani devono occuparsi delle regioni più povere dell’Italia: il che significa più occupazione, meno corruzione, e serietà. Li aiuteremo, come abbiamo sempre fatto, ma basta con questo giochino di scaricare le responsabilità sull’Europa», rispondendo per di più ad una domanda ben precisa sul meridione e l’occupazione giovanile. Un accanimento, quello contro Juncker, anche controproducente vista la sua disponibilità a riformare il regolamento di Dublino e alla flessibilità.
Avere un governo forte significa anche attrarre investimenti perché si danno garanzie e perché si agevola l’investitore a farli. L’Italia non è la Gran Bretagna: l’uscita dall’euro, con i vagheggiamenti autarchici che comporta, è totalmente assurda perché svantaggerebbe la penisola sotto ogni punto di vista. Considerazione, questa, cui andrebbe aggiunto che sarebbe forse l’ora di smettere di arroccarsi nel nostro orgoglioso campanilismo ed aprirsi un po’ al resto del mondo perché, fidatevi, siamo chiusi, tremendamente chiusi. L’Europa, in questo senso, è una salvezza perché dà la possibilità di avere una mentalità più ampia, di creare una fratellanza europea, di poter risolvere i problemi insieme. Crediamo davvero che l’Italia da sola potrebbe avere una economia autosufficiente?
Il problema dell’Europa rimangono le politiche dei singoli Stati, riottosi a cedere pezzi di sovranità perché ancora arroccati nella difesa di prerogative nazionaliste all’oggi prive di senso, ma anche le persone che vivono al loro interno, non sempre a conoscenza dei meccanismi europei o del loro stesso paese. L’Italia non è da meno a questa tendenza: saprà l’Europa, e gli italiani che ne fanno parte, far fronte a questa nuova sua messa in dubbio?
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.