“Qualcuno è complice di questa Europa, di queste scelte, di questo massacro dell’agricoltura italiana. Quindi qualcuno ne dovrà rispondere. L’agricoltura sarà uno dei primi temi di quando saremo al governo e il ministro dell’agricoltura sarà espresso dalla Lega perché noi al territorio e ai nostri prodotti ci teniamo sul serio”. Così parlò Matteo Salvini, lo scorso ottobre, a margine del Forum dell’agricoltura e dell’alimentazione a Cernobbio. Chi conosce il personaggio sa che non si è trattata della prima – né dell’ultima- invettiva contro l’Unione europea, soprattutto in tema di settore primario.

L’insistenza sull’agricoltura potrebbe sembrare, a prima vista, quantomeno curiosa. In fondo, il comparto agricolo incide ormai in tutti i Paesi avanzati in maniera ridotta sul Prodotto Interno Lordo. Ma parlare della terra ci riporta, è il caso di dirlo, alle nostre radici: il ruolo dell’agricoltura fu infatti determinante nella costruzione dell’Europa unita. Solo approfondendolo possiamo comprendere come un progetto di riforma del settore, etichettato con la vituperata dicitura delle “quote latte”, abbia dato l’input decisivo al fenomeno oggi sotto gli occhi di tutti: quell’ “antieuropeismo di pancia”, fatto di stereotipi e di percezioni non legate alla realtà dei fatti, che ha preso piede in Italia.

La Politica Agricola Comune, più semplicemente PAC, fu la prima, vera politica comunitaria. Per lungo tempo, a dire il vero, fu anche l’unica azione collettiva degna di nota, destinata a radicarsi nella tradizione continentale e a diventare luogo di confronto – e di scontro – per questioni economiche e politiche.

Immaginatevi l’Europa del secondo dopoguerra, sconvolta materialmente e politicamente da un conflitto devastante. La prima cosa da fare era assicurare alla popolazione cibo, dopo i razionamenti e le restrizioni dovute agli anni di guerra. La seconda, evitare che potessero tornare in auge movimenti fascisti, responsabili della deflagrazione del conflitto mondiale. Questi due propositi passavano da un intervento proprio sull’agricoltura, perché sono ovviamente contadini ed allevatori a produrre cibo, ed era evidente come l’ascesa di regimi fascisti fosse stata sostenuta dalle scontente realtà rurali.

Risultato: venne messo in piedi un sistema di stampo protezionistico – parlare di dazi ora va di moda, ma non si tratta certo di una novità – che contribuiva in maniera imponente a sostenere la produzione agricola. La garanzia di prezzi minimi ed il sostegno sul mercato internazionale, oltre a pesanti dazi sulla merce in entrata, facevano sì che si producesse sempre più. Pure troppo, e questo alla lunga diventò un guaio.

Eh sì, perché non è difficile immaginare quanto queste spese pesassero sul budget comunitario a lungo andare. Se ci mettiamo inoltre il peso di importanti questioni politiche, otteniamo dei momenti di tensione politico-istituzionale che sarebbe bene ricordare: dalla “crisi della sedia vuota” allo scontro tra Europarlamento e Commissione sul bilancio, passando per Tatcher e la famosa frase “I want my money back”.  

Insomma, agli inizi degli anni Ottanta era chiaro come si dovesse andare a toccare la PAC, e la scelta cadde anche sulla produzione del latte. La decisione in breve era questa: gli Stati membri della CEE vennero costretti a limitarne la produzione, fermandosi al livello raggiunto nel 1983, da cui il nomignolo di quote latte. Si trattava di un provvedimento obiettivamente sfavorevole all’Italia, in un certo senso “condannata all’importazione”, per quanto approvato dai governanti nostrani. Ed è proprio qui che si innestò la nascita del sentimento anti europeista, con l’utilizzo di comportamenti stereotipati, divenuti vere e proprie liturgie, nonché di linguaggi quasi codificati.

Le manifestazioni di protesta che vennero attuate contro le decisioni del 1984, in tutte le loro articolazioni, presentavano vari aspetti che si sono poi radicati in alcuni settori dell’opinione pubblica italiana. A partire dal linguaggio e dagli slogan utilizzati: il mito dell’Eurocrazia, la tentacolare macchina burocratica con sede a Bruxelles, accusata di furto e di imposizioni dall’alto; l’immobilismo e addirittura la complicità dei politici nazionali, incapaci di “sbattere i pugni sul tavolo” e buoni solo a “togliersi il cappello”, di fronte alle angherie comunitarie. E ancora, il ritorno di temi tipicamente nazionalistici, con l’attacco specialmente ai Paesi del Nord Europa (Mussolini le avrebbe definite “le nazioni plutocratiche e borghesi”), tacciati di razzismo. Attenzione, perché tutti questi luoghi comuni non rimasero confinati nei bar, o nelle piazze; al contrario, cominciarono ad essere utilizzati negli articoli dei maggiori quotidiani e della stampa specializzata, fino a comparire in documenti ufficiali del Parlamento italiano.

Non devono essere tralasciati i comportamenti tenuti dai manifestanti. Se da una parte iniziò a diffondersi l’abitudine di andare a protestare per le vie delle città, specialmente Roma, con trattori e animali al seguito, ecco che cominciarono a verificarsi anche blocchi stradali, specialmente al confine. Soprattutto a partire dal 1996, quando la questione “quote latte” esplose per la decisione, da parte del governo Prodi, di far pagare le multe agli allevatori che producevano troppo. E così, poteva succedere che i malcapitati camionisti stranieri venissero fermati al Brennero, per poi vedere il latte contenuto nelle loro cisterne versato a terra da inferociti dimostranti. Non troppo dissimile da proteste che si sono svolte recentemente, come i blocchi promossi da Coldiretti.

La Lega Nord peraltro affonda le sue radici proprio in quegli anni e in quell’area, la Pianura padana, sede di numerosi allevamenti e centri di produzione di latte.  Inizialmente il Carroccio era (udite udite) uno dei partiti più europeisti: l’Europa era vista come baluardo contro Roma, per l’autonomia dallo Stato centrale, e soprattutto come treno economico al quale rimanere aggrappati. L’esplosione delle proteste negli anni Novanta però vide il movimento di Bossi accorrere in favore degli allevatori, cavalcando la protesta contro le decisioni della Comunità europea. Mutatis mutandis, l’atteggiamento alla base della “nuova” Lega di Salvini sembra essere il solito. Ed il neo ministro dell’Interno ha dimostrato di avere fiuto politico da vendere: è vero che l’agricoltura europea rimane un tema caldo delle politiche comunitarie, con diverse sfide che vanno dalla difesa della qualità all’introduzione degli OGM; ma l’abituale ricorrenza ai temi del settore verde, nel discorso politico, non fa che riportare la mente all’appartenenza, all’identità, al territorio. Tutte tematiche care alla Lega e ai nuovi movimenti “sovranisti”, riproposizioni nemmeno troppo velate dei vecchi nazionalismi. E se l’associazione agricoltura-identità territoriale può essere in parte un tòpos antico, certamente la questione delle quote latte contribuì a rinsaldare questo legame. E, di conseguenza, a dare vita ad un potente insieme di credenze e rituali, per un nuovo antieuropeismo all’italiana.

A cura di: Alessandro Bacaloni

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