“L’agro palermitano è purtroppo funestato, come altre parti di questa e delle finitime province, da una vasta associazione di malfattori, organizzati in sezioni, divisi in gruppi: ogni gruppo è regolato da un capo, che chiamasi caporione, e, secondo il numero dei componenti e la estensione territoriale, su cui debba svolgersi la propria azione, a questo caporione viene aggiunto un sottocapo, incaricato di sostituirlo nei casi di assenza o di altro impedimento. E a questa compagine di malviventi è preposto un capo supremo”[1].

Queste frasi non vennero scritte da un membro di una Commissione Parlamentare Antimafia durante gli anni Sessanta del secolo scorso. E neppure da qualche magistrato del pool Antimafia impegnato a redigere l’istruttoria del Maxiprocesso. No, questo estratto che vi propongo è contenuto in un documento di fine Ottocento: il Rapporto Sangiorgi. Si trattò del primo resoconto di polizia sulla mafia siciliana che prende il nome da colui che lo realizzò: il questore di Palermo dell’epoca. Il documento delineava un’organizzazione criminale unitaria, che ricorda da vicino qualcosa di molto somigliante a Cosa Nostra degli ultimi decenni (almeno fino al 1986, anno in cui iniziò il Maxiprocesso). Un documento che si rivela straordinario, se si pensa al periodo in cui venne realizzato, dove la percezione del fenomeno mafioso non era assolutamente quella di oggi, anche se la parola mafia era già conosciuta e le discussioni su di essa ben presenti.

Sangiorgi parlava esplicitamente di mafia  come di “un’associazione criminale”, organizzata in sezioni, a sua volta suddivise in gruppi, unificati da un comando centrale. Assieme alla parola «mafia», comparivano espressioni come «la criminosa associazione», «la tenebrosa congrega» e “il tenebroso sodalizio”. Le attività furono ricostruite attraverso una minuziosa documentazione di eventi delittuosi: omicidi, estorsioni, furti e rapine, imposizione di guardiani, fabbricazione e spaccio di denaro falso.

Nella prima relazione, datata 8 novembre 1898, furono indicati almeno otto gruppi mafiosi differenti: Piana dei Colli, Acquasanta, Falde, Malaspina, Passo di Rigano, Uditore, Pepignano e Olivuzza. Ogni gruppo aveva al suo interno un capo, affiancato da un vice. Per esempio, il gruppo di Malaspina era retto da Francesco Siina, con l’aiuto di Giuseppe Lombardo.

Lo scopo dell’associazione era quello di imporre ai proprietari dei fondi “i castaldi, i guardiani, la mano d’opera, le gabelle, i prezzi per la vendita degli agrumi e degli altri prodotti del suolo”. Chi non accettava le imposizioni avrebbe subito delle ritorsioni. Le richieste pecuniarie venivano solitamente accompagnate da lettere minatorie. Come si può vedere, vi sono analogie con i metodi che caratterizzano l’esercitazione odierna (o degli ultimi anni) del pizzo da parte delle mafie.

Tra le principali fonti di accumulazione inoltre vi erano rapine e furti di bestiame , ma anche furti minori. Le varie attività concorrevano a formare un fondo comune che serviva a soccorrere le famiglie di detenuti e latitanti, a pagare avvocati e testimoni compiacenti, a procurare un reddito agli affiliati senza impiego o costretti a rimanere nascosti per timore di faide o vendette interne.

Il “capo supremo” dell’epoca sarebbe stato Francesco Siino, nome già citato, fratello di Alfonso, il caporione del gruppo Uditore, “di mestiere capraio”.

Il rapporto si rivela importante dinanzi ai nostri occhi: per la prima volta si parlava all’interno di un resoconto di polizia della paventata esistenza di una organizzazione criminale unitaria che ciò nonostante non suscitò gli effetti sperati nella Palermo di fine Ottocento. Difatti la classe dirigente dell’epoca non aveva la volontà necessaria per combattere il fenomeno mafioso. Ottobre 1899: il capo della cosca di Malaspina (“e capo supremo”), Francesco Siino, sfugge ad un agguato da parte di alcuni suoi rivali e viene catturato dalla polizia. Messo alle strette durante alcuni interrogatori e resosi conto della situazione di debolezza in cui si trova rispetto ai suoi nemici, in particolare il capo della cosca dell’Uditore Antonino Giammona, decise di collaborare con le autorità, divenendo così una sorta di Vitale ante – litteram  Egli delinea l’assetto organizzativo del “tenebroso sodalizio” e, in gran parte, conferma le acquisizioni che sono già in possesso alla Questura di Palermo. Nella notte tra il 27 e 28 aprile del 1900, la Questura procedette all’arresto di diversi mafiosi, tra cui Giammona. Sangiorgi scrisse un rapporto dove descrisse i metodi repressivi dell’organizzazione e lo presentò alla procura di Palermo, in vista della preparazione di un processo. Nel resoconto si affermava come si rivelasse importante per le cosche il contributo dei “contatti politici” e le interazioni con le élites. La mafia era capace di ottenere e ricevere aiuto da questi soggetti, configurandosi già come un’organizzazione capace di creare importanti network relazionali e sociali.

Il processo iniziò nel 1901. Durante il dibattimento, Francesco Siino, principale testimone d’accusa, ritrasse le sua affermazioni, trasformandole in apprezzamenti nei confronti degli imputati presenti. Soltanto 32 imputati (su almeno un centinaio) vennero giudicati colpevoli di aver dato vita a un’associazione criminale. Il  mancato pentito e capo del sodalizio criminale intuì il clima politico dell’epoca, poco propizio per verdetti e condanne nei confronti di organizzazioni criminali, soprattutto se legate a qualche importante notabile o funzionario pubblico. Si pensi al complesso iter giudiziario del caso Notarbartolo , conclusosi con l’assoluzione definitiva del deputato Raffaele Palizzolo e l’assenza di colpevoli, giuridicamente parlando. Il Rapporto Sangiorgi conteneva molti elementi che avrebbero permesso alle autorità giudiziarie di emettere verdetti in grado di cambiare la storia della criminalità organizzata del nostro paese. Ciò però non avvenne. Furono necessari almeno 90 anni da quel primo resoconto di polizia per poter leggere, in una sentenza definitiva, l’esistenza di una organizzazione criminale siciliana unitaria. Ma questa è un’altra storia….

 

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[1] La citazioni contenute nell’articolo sono tratte dal Rapporto Sangiorgi, documento che ho potuto consultare integralmente in almeno due testi. Per chi volesse approfondire rimando a:

Salvatore Lupo, Il tenebroso sodalizio. Il primo rapporto di polizia sulla mafia siciliana, XL Edizioni, Roma, 2013;

Umberto Santino, La mafia dimenticata. La criminalità organizzata in Sicilia dall’Unità ai primi del Novecento. Le inchieste, i processi. Un documento storico, Edizione Melatempo, Milano, 2017.