«Mi smarrii, fra l’aria di alta quota e le nuvole, con l’impressione di oltrepassare una linea immaginaria che separa la collina, mero ammasso di terra, da una montagna, passando a sublimità e magnificenza ultraterrene. Ciò che caratterizza la montagna oltre quella linea terrena è l’essere intatta, grandiosa, terribile. Mai può diventare familiare; nel momento stesso in cui vi metti piedi sei smarrito. Conosci la via eppure vaghi, eccitato, sulla pietra nuda e liscia, come se fossero aria e nuvole solidificate. Non v’è dubbio che quella vetta fosca e rocciosa, nascosta fra le nuvole, fosse assai più terribile, sublime ed eccitante del cratere di un vulcano che sputa fuoco».

Henry David Thoreau, Diario.

 

La difficoltà, in un monte come il Ben Nevis, non è certamente in quei 1344 metri che lo rendono il monte più alto del Regno Unito, anche se i metri non sono sempre un indicatore veritiero sul come può essere un’ascesa. Vi sono molte variabili da considerare: il dislivello giornaliero da percorrere, i tratti esposti, la presenza di alpinisti inesperti, la pulizia del tratto. Nel caso del Ben Nevis la difficoltà è nei repentini cambi di clima: per due giorni avevamo tenuto d’occhio le previsioni meteorologiche. Solo quel giorno, il 7 agosto, non era prevista pioggia ma una fitta nebbia negli ultimi 400 metri di dislivello prima della vetta. Aspetto che avrebbe costituito un notevole problema sia per la visibilità limitata a meno di dieci metri, sia per il fatto che la nebbia porta con sé l’umido il quale rende estremamente scivolose le rocce. All’elenco delle difficoltà è necessario aggiungere l’escursione termica: al momento della partenza aravamo a 15 metri di dislivello sul mare con una temperatura reale intorno ai 17 gradi e percepita di almeno 22. Arrivati sulla cima, con 1330 metri di dislivello percorsi, la temperatura si attestava sui 4 – 5 gradi centigradi con forte vento dal mare che rendeva la temperatura percepita ancora più bassa, intorno ad 1 grado.

Per noi il Ben Nevis era un pezzo di cammino all’interno di un lungo trekking nelle regioni più incontaminate ed isolate della Scozia, là dove non v’è traccia della mano umana e dove l’uomo è tutt’uno con la vastità di ciò che lo circonda. Luoghi in cui sembra che la terra si rimpicciolisca e perda di importanza: ciò che conta, il vero protagonista, diviene il cielo che sovrasta, vera ed unica sconfinatezza visibile all’occhio umano che confonde terra ed aria. All’altezza delle nuvole il cielo pare svelare la circonferenza del globo terrestre. In questo genere di viaggi tutto è in comune con il compagno: il cibo, il riparo notturno, la fatica, le speranze e la frustrazione e, soprattutto, l’essenziale; qualcosa che non si può dire perché la si prova soltanto e che nessuno, al di fuori di quella coppia, potrà capire.

La sveglia suonò alle sei e mezzo del mattino. Iniziammo a preparare lo zaino con lo stretto indispensabile sorseggiando del caffè bollente: i ricambi nel caso di pioggia, i vestiti pesanti da mettere in avvicinamento alla vetta, i viveri – che si limitavano ad una mela a testa, due barrette energetiche, quattro pezzi di pane, due scatolette di tonno e sgombro, mezza tavoletta di cioccolata. Sul cibo commettemmo un errore che pagammo a caro prezzo: pochi e scarsamente nutrienti viveri ci resero, negli ultimi metri di salita e al ritorno, molto deboli. Fu un errore da novellini, ma tant’è che l’abbiamo fatto.  Ciononostante partimmo fiduciosi di arrivare in vetta durante la giornata.

Il sentiero, che dalle vicinanze di Fort William conduce al Ben Nevis, costringe dapprima ad affrontare il Meal an che con i suoi 711 metri non costituisce certo un serio ostacolo ad un camminatore esperto. La fatica di quel tratto è inoltre ripagata da una vista mozzafiato.

Nel primo tragitto delle piante simili a felci mi trasportano come per magia nella Cambogia dei miei sogni, complice anche il caldo e l’elevato tasso di umidità. Svoltata una delle innumerevoli curve del sentiero ci troviamo di fronte ad una serie di piccole cascate che confluiscono in una cascata più grande, ma sempre di modeste dimensioni, che porta il nostro sguardo ad ammirare la vallata, già piccola nonostante le poche ore di cammino. Ancora una svolta e superiamo il Meal an: di fronte a noi si apre uno scenario sensazionale! Sulla sinistra il Ben Nevis, massiccio e potente, la cui cima è avvolta nella nebbia, alla destra il Meal an, alle nostre spalle la cascata e la valle: di fronte a noi un lago di montagna su cui si specchia meravigliosamente il paesaggio circostante. Decidiamo di deviare dal percorso per esplorare la zona del lago, consapevoli che ciò potrebbe comportare un rischio visto che nell’erba marrognola potrebbero nascondersi delle insidie. Ed in effetti è così: fatti pochi metri, poco prima di poter prendere un bastone con cui tastare il terreno, Daniele sprofonda con una gamba in delle piccole sabbie mobili nascoste. Subito riesce a liberarsi ma è ricoperto di fango su tutta la gamba sinistra, cosa che potrebbe procurargli piccoli congelamenti visto il vento freddo e la bassa temperatura. Fortunatamente abbiamo il cambio dei calzini e i pantaloni hanno l’opzione per togliere la parte da sotto al ginocchio mediante una cerniera. Lascio il mio compagno ad eseguire le noiose ma necessarie operazioni e mi accingo ad esplorare la prima spiaggetta del lago mentre dietro di me la nebbia cala sempre più dalla vetta del Ben Nevis.

IMG_0696

La nebbia cala su Daniele, foto di Daniele Curci, riproduzione riservata

Il lago è molto bello, increspato da piccole onde dovute dal vento e se mi avvicino alla riva vedo benissimo il fondale argilloso. Peccato che poco più avanti trovo i resti di una sosta di qualche alpinista poco avveduto che ha deciso di lasciare lì la sua immondizia. Fedele al motto by fair means che si traduce anche in keep the mountain clean, raccolgo quella schifezza e la metto nel mio zaino. Di lì a poco, comunque, Daniele mi raggiunge felice di essere riuscito a risolvere un problema che avrebbe potuto costringerci a tornare indietro. Mi meraviglio nel vederlo in pantaloncini corti, ma lui è convinto di star meglio così nonostante il freddo.

Compiuta una rapida perlustrazione del lago torniamo sui nostri passi e ci accingiamo a salire sul monte vero e proprio, il Ben Nevis, dopo aver consumato il nostro misero pranzo vicino ad una cascata mentre la nebbia ci avvolge in un gelido abbraccio.

IMG_0683

Il lago tra il Meal an e il Ben Nevis, foto di Daniele Curci, riproduzione riservata

Scomparsi nella nebbia iniziamo il percorso tenendo ben desta la nostra attenzione per non perderci o, peggio ancora, cadere in un burrone. Lo zaino inizia a pesare, sotto la giacca a vento e i vestiti inizio a sentire il sudore gocciolare nonostante la temperatura esterna sia già molto bassa. Incominciamo a parlare per farci coraggio, per farci sostegno. Poi torniamo al silenzio, alla nostra paura di non farcela ad arrivare in vetta o che le nostre gambe ci abbandonino durante il ritorno perché stremate dal peso dello zaino. Mi concentro sui miei passi, su dove andare, sul rumore acciottolato dei miei piedi sulle rocce. Mi concentro su me stesso e sulla nebbia e il vento. Cerco di farmi coraggio: «puoi farcela», mi dico, «questo monte è alla tua portata». Sono sicuro che Daniele stia affrontando ciò che affronto io – lo vedo, lo sento e me lo confermerà una volta tornati alla tenda. Torniamo a parlare per farci coraggio, per farci sostegno. Parliamo di tutto: ragazze, montagne, cibo, zaini da montagna, tende, viaggi. Poi torniamo al nostro silenzio. La nebbia è ormai in simbiosi con il nostro essere che inizia a passare da stati di euforia a stati di depressione e di sconforto aggravati da una scena inquietante e surreale: d’un tratto vediamo una donna scendere dalla montagna, quasi gattonando. Quando si avvicina notiamo le gote del suo viso violacee, gli occhi assorti nella contemplazione di non sappiamo quale orrore. È certamente preda di un attacco di panico e sta male. Ci avviciniamo e chiediamo se ha bisogno di aiuto. Non risponde, continua a scendere. La seguiamo, cerchiamo di instaurare un contatto con lei, ma non risponde. Arriva un uomo con una casacca gialla su cui riconosco il simbolo delle guide, il quale ci ferma e ci ringrazia dell’aiuto spiegandoci che stava cercando la signora che, a questo punto, lasciamo alle sue cure.

Nel frattempo la temperatura è scesa ulteriormente ma ciò nonostante la nebbia non accenna a diminuire. Il poco cibo da noi mangiato a pranzo non ci dà energia: avvertiamo la perdita di tono muscolare e di concentrazione. Ci fermiamo a bere. Torniamo a camminare optando per delle pause più frequenti: entrambi avvertiamo dolori nel corpo. Io in particolare sento dolore alla schiena, dove ho subito un infortunio, che si propaga allo sciatico e quindi al ginocchio sinistro e al piede che mi formicola. Dolore che mi aveva costretto, già dalla metà del percorso, a dover rinunciare alla mia parte di peso dello zaino per affidarla a Daniele che me la restituirà solamente al ritorno. D’un tratto alzo lo sguardo e mi rivolgo al mio amico «guarda Dani! quel costone lassù non può che essere la vetta!». Come ci sbagliavamo! Per un’ora e forse più avremmo provato un senso di frustrazione alla vista dei costoni che sembravano la nostra cima, la quale era invece nascosta dietro alla coltre di nebbia. Ma eccoci, ad un certo punto il paesaggio cambia, assume la conformazione di una cresta! Siamo quasi arrivati! Percorriamo questi ultimi metri entusiasti ma senza riuscire ancora a vedere il vecchio punto di osservazione meteorologica, fino a quando non vi arriviamo davanti. La temperatura è insopportabile e la nostra voglia di rimanere in vetta, da cui non scorgiamo niente, non è molta.

Nessun pensiero sopraffino, nessuna consapevolezza da vetta o romanticismi del genere che piacciono tanto ai pantofolai si affacciano alla nostra mente. Cerchiamo di ricavarci un piccolo riparo dal freddo dove poter mangiare mezza barretta e un pezzo di cioccolata e bere dell’acqua. Scattiamo frettolosamente una foto – in cui sembriamo addirittura ben messi – ed iniziamo la discesa. Inizio a battere il sentiero ma le nostre teste sono assenti, stanche per i pochi zuccheri in corpo e per lo sforzo, tant’è che le mie gambe vanno da sole mentre la mia mente sembra ferma.

874ecad0-7f91-4749-b52a-f0f60e47b4fd

La vecchia stazione metereologica sulla vetta del Ben Nevis, foto di Daniele Reale, riproduzione riservata

Il ricordo che ho di quell’istante è confuso ma nonostante tutto abbastanza lucido: non stavo pensando, la mia mente era spenta, completamente. Registrava solo ciò che vedeva ma non dava più ordini al corpo, né fantasticava su qualcosa. Le gambe continuavano nell’ordine impartitogli prima dello spegnimento del cervello: andar dritto. Fu ad un passo dallo strapiombo che girarono mentre il cuore aumentava i suoi battiti. Ero quasi finito in un burrone senza accorgermene. Non saprei dire se furono le gambe o la mente a girare una volta visto il pericolo, fatto sta che ci mancò poco. Una volta tornati in tenda lo confidai a Daniele, il quale sbiancò e mi disse che non si era reso conto di nulla perché anche lui in quello stato catatonico.

Arriviamo alla tenda tremando per un calo di zuccheri. Pian piano ci riprendiamo iniziando a bere tè zuccherato. Le nostre mani sono gonfie a causa dello sbalzo di altitudine, del freddo e dello sforzo. Sentiamo la fatica nei nostri corpi: le spalle per lo zaino, le gambe per le camminate. Ma la mente non è mai stata così fredda, lucida e consapevole.

La discesa è stata più difficile di quanto realmente fosse. Non tanto per il livello tecnico, quanto per la stanchezza, il dolore alla schiena e il resistere alla tentazione al mangiare l’ultimo pezzo di cioccolato che avevamo deciso di tenere per le emergenze. In otto ore e mezzo avevamo compiuto l’ascesa di due monti, avendo alle spalle giorni di trekking, coprendo un dislivello totale di 2700 metri, con 35 km a piedi percorsi ed uno sbalzo termico di 14 gradi.

Ciò che avevamo provato su quel monte era uno stato estatico: se il sublime è paura e meraviglia allora ero immerso nel sublime. Lassù, negli ultimi 400 metri di dislivello, immerso nella nebbia tra il vento io ero, semplicemente. Ero ciò che sono, ciò che provavo: estaticità. Paura, euforia, voglia di farcela, di arrivare in vetta, voler mollare tutto per la paura di non farcela. La frustrazione della vetta che non arriva perché nascosta dalla nebbia. La frustrazione del lago lontano durante la discesa perché ancora, dopo questo passo, visivamente lontano. Niente rete cellulare, né qui alla tenda né sul percorso né sulla vetta: tagliato fuori dal mondo. E nell’ascesa ti appoggi necessariamente al compagno, creando un legame che altri non comprenderanno mai. Parli soltanto quando ti serve per farti coraggio. Nei momenti di tranquillità parli per piacere di farlo. Ma lassù, nella nebbia, in quel luogo staccato dalla terra fatto di roccia e nuvole che pare non essere di questo mondo, senti solo il vento, la pioggia che batte sulla tua giacca e il ciottolare dei sassi sotto lo scarpone. Siamo stati degli incoscienti? Forse. Ma nonostante tutto mi sentivo più forte e consapevole di qualcosa di me.[1]

38880932_10216884741491448_4971284023595761664_n

Sulla vetta del Ben Nevis, riproduzione riservata

Postilla: perché faccio ciò che faccio

Ciò a cui molti non pensano quando immaginano la montagna, i paesaggi sconfinati, l’avventura sono tutti gli “inconvenienti” del percorso: la solitudine, la difficoltà, il freddo – o il troppo caldo- ma soprattutto la paura. Viene spesso sottovalutata la paura, anche perché se ne prova stupidamente vergogna. La paura è importante: è l’unico indicatore di pericolo “naturale” che abbiamo. La paura in questi contesti, sia prima di partire che durante il percorso, arriva sempre ma l’importante sta nel farvi fronte, nell’affrontarla, nel superarla perché consapevoli di ciò che si sta facendo riducendo al minimo i rischi.  Non dar ascolto alla paura può significare rimanere bloccati in preda ad un attacco di panico sulla cima di un monte e magari dover chiamare un elicottero.

Ma dunque, perché far quello che faccio, se a volte può far paura?

Nonostante tutte le privazioni continuo a provare un richiamo forte ed inspiegabile verso luoghi come quelli che ho visto in Scozia. Non è l’adrenalina ciò che cerco, per quello ci sono molte altre cose più sicure e accessibili. Né si può dire che una volta arrivati in vetta si abbia una sorta di illuminazione. Piuttosto, ciò che mi sento di dire è che in quei luoghi sono veramente me stesso perché arrivo a scandagliare le profondità della mia mente. Quelle profondità che in un  contesto “normale” mi rimarrebbero inaccessibili. Ma ancora, non è solo questo. Vi è anche la profonda essenzialità della natura, dei luoghi incontaminati dove ogni cosa è parte della vita e allo stesso tempo una vita. In confronto alla semplicità disarmante della natura che svela l’essenza dell’essere delle cose mi rendo conto che noi siamo niente. Che la nostra presunta complessità non è che la manifestazione della nostra incapacità d’arrivare a qualcosa. È nella semplicità della natura che la risposta, o le risposte cui sorgono altre domande – che cosa ci sarà dietro quella cresta? – e l’adattamento al contesto inteso come semplice “essere” si palesa in una semplicità così forte da lasciarci disarmati. Motivo per cui vi costruiamo intorno speculazioni prive di un significato che si avvicini all’essere delle cose, inteso come semplice manifestazione dell’essenza dell’essere. È una visione panteistica che implica che che nel tutto, in ogni cosa, si manifesti la vita in quanto anche in ciò che non è animato vi è vita, essendo precondizione dell’animato e opposto ad esso, parte integrante di ciò che chiamiamo «sistema vitale».

IMG_0920

Da qualche parte in Scozia, foto di Daniele Curci, riproduzione riservata

Ciò che faccio non nasconde una vena di asocialità o di rifiuto della vita. Ciò che faccio è piuttosto un’esaltazione della vita, la mia esaltazione della vita, e la sfida è tornare tra gli uomini consapevoli che la felicità è tale solo se condivisa, anche se un velo di incomunicabilità, di incomprensione, rimarrà sempre. Senza queste fughe non potrei essere me stesso.

Qualche giorno più tardi, dopo esser passati per trekking e bici nella zona di Glencoe – e se vuoi scoprire che cosa significhi vivere con il tempo che cambia continuamente passa da lì – mi ritrovai sdraiato sotto un tappeto di stelle: fu in quel momento che mi resi conto di aver raggiunto la pace, l’essere me stesso facendo parte del tutto. Eravamo al campeggio di Oban che si trova sul limitare di un fiordo, di fronte all’oceano. Tutto il campeggio dormiva, ero l’unico a vagare a capo all’insù per ammirare la via lattea. Ad un certo punto, per non so dire quanto, fu come se tutto si fosse fermato: non c’erano sentimenti, né emozioni, né pensieri, né movimenti: solo l’essere in pace con se stessi nella natura. Non pensavo, non mi muovevo, semplicemente ero. Ero il mio essere, niente di più niente di meno, vale a dire l’essenziale. Mai sono stato così in pace come in quel momento, e forse questo può servire a spiegare il perché faccio ciò che faccio, o perché torno sempre alla natura selvaggia e sconfinata, lontano dai confini delle umane, troppo umane, metropoli.

IMG_1137

Tra fiordi e piccoli porti scozzesi, foto di Daniele Curci, riproduzione riservata

[1]  «Raccontando storie oggettivi la tua esperienza. La separi da te. Fissi determinate verità. Altre ne inventi. A volte parti da un episodio realmente accaduto […] e lo sviluppi inventando episodi che non sono avvenuti nella realtà ma che tuttavia contribuiscono a chiarire e a spiegare.». Perché la bellezza di una storia «è che mentre la racconti la sogni, nella speranza che allora anche gli altri possano sognarla insieme a te, e in questo modo il ricordo e l’immaginazione e il linguaggio si fondono per creare spiriti nella mente», Tim O’Brien, Le cose che ci portiamo.

© Riproduzione riservata