È dalla seconda metà dell’Ottocento che le elezioni di midterm sono divenute un’occasione di “rivincita” per il partito che non occupa la Casa Bianca. Escludendo tre casi, difatti, ad ogni elezione il partito sconfitto alle presidenziali è riuscito a togliere seggi all’avversario in una delle due camere. Succederà anche il prossimo 6 novembre? È un’eventualità che Donald Trump sta sicuramente mettendo in conto, tanto più che i democratici possono vincere alla Camera, il che porta il presidente a fare ciò che sa far bene: attaccare per difendersi.

In questo caso si tratta di un attacco già sperimentato in passato, ed è volto a rafforzare e prendere quei voti che si conquistano solleticando l’emozione, esprimendo la volontà di voler attuare misure dure – e non importa se queste sono in contraddizione evidente con alcune recenti esternazioni del presidente.

La questione della nomina di Brett Kavanaugh come giudice della Corte Suprema ha rafforzato l’elettorato bianco, maschile e white supremacist favorevole a Trump, ma allo stesso tempo è riuscita ad allontanare dal Partito repubblicano l’elettorato femminile su cui si giocano le elezioni –le donne sono la maggioranza dell’elettorato attivo.

Ciò rende più instabile il risultato elettorale agli occhi di Trump, il quale è minacciato anche da una serie di inchieste giornalistiche che mettono in accusa il suo entourage. Ne è un esempio l’inchiesta del New York Times su Kushner, marito di Ivanka, secondo cui il genero del presidente avrebbe sfruttato delle pastoie legali per ottenere vantaggi economici in maniera eticamente discutibile.

Trump sente quindi il bisogno di attaccare e lo fa rivolgendosi verso nemici esterni, come il Messico o la Russia, attraverso cui scaturiscono gli attacchi verso i nemici interni, i democratici.

Il caso del Messico è scoppiato con la formazione della carovana di 7000 migranti, provenienti da vari paesi dell’America Centrale, al confine con gli Stati Uniti: Trump ha parlato di un possibile intervento dell’esercito per sigillare la frontiera.

Sulla questione Trump sfrutta le paure dei blue collar che ritengono i latinos una forma di concorrenza a basso costo, ma anche di quei bianchi che vedono nell’aumento della popolazione sud americana un pericolo per la supremazia bianca. Attaccare il Messico vuol dire erigersi a difesa dell’unicità americana, della sua whitness, e ciò porta voti o perlomeno consolida e chiama alle urne i propri elettori – e alle elezioni di midterm è fondamentale riuscire a mobilitare il proprio elettorato. In fin dei conti, che cosa c’è di più nazionalistico e patriottico della difesa dei confini patri?

Nel corso di un comizio tenutosi ad Houston (Texas) lo scorso 22 ottobre Trump ha dichiarato di essere un «nazionalista» a differenza dei democratici, da lui etichettati come «globalisti».

Sottolineando questa differenza il presidente ha sostenuto che il Partito democratico privilegia gli interessi sovranazionali a discapito di quelli nazionali. Ciò che viene sottointeso in questo messaggio è la squalifica dell’avversario come antipatriottico o, peggio ancora, un-american – alieno, totalmente estraneo al paese e per questo un pericolo. Se la strategia trumpiana è inusuale per il ruolo che ricopre, non è inusuale per il tipo di personaggio presidenziale che si è creato. Sin dalla battaglia per le elezioni del 2016 Trump si è infatti rifiutato di riconoscere i politici democratici come legittimi avversari, preferendo piuttosto puntare su una loro delegittimazione, sostenendo che i suoi avversari sono un pericolo per l’assetto politico. L’azione di Trump si caratterizza, in questo senso, come smantellamento e svuotamento delle procedure sulle quali lo Stato basa il suo funzionamento.

Il nemico creato da Trump è qualcuno che viene dall’esterno, oppure qualcuno che abita all’interno dei propri confini ma diverso perché non corrisponde ad una immagine stereotipata del cittadino; ancora, può essere la macchina governativa e partitica che entra in contrasto con i voleri ed i bisogni del popolo, e ciò non è una prerogativa di Donald Trump. Sul nemico, comunque, viene convogliata la rabbia, l’odio: diventa l’untore, il capro espiatorio, colui che risolve i problemi perché accusato di provocarli. Un personaggio immaginario costruito con gli elementi della realtà pregiudiziale che compatta l’elettorato al fine di prendere il potere o mantenerlo. Che è un po’ ciò che stanno facendo gli antieuropeisti da noi in Europa, sfruttando vecchie e pericolose ricette adattandole al nuovo.

Il Messico permette una mossa ulteriore, meno appariscente ma altrettanto importante. Molti democratici, in particolar modo l’ala sinistra del partito di cui fanno parte Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, chiedono l’abolizione della ICE, la Immigration and Customs Enforcement, una polizia che si occupa di frontiere e immigrazioni, nata in seguito all’11 settembre,  conosciuta per essere particolarmente incline all’uso della forza. Voler aumentare la presenza militare al confine, dove peraltro operano già polizie militarizzate come la ICE, la Border Patrol e i Texas Rangers significa sostenere che quella strada è giusta e che ciò che sostengono i democratici è sbagliato. La mossa di Trump cerca di minare le basi poste dai democrats per lo smantellamento della ICE e la smilitarizzazione, inserendosi così anche all’interno del dibattito sulle violenze della polizia, in special modo verso la comunità afroamericana, giustificandole. Trump, del resto, non è nuovo a richiami più o meno espliciti o impliciti alla violenza nei confronti dei propri avversari – per saperne di più cliccate qui. Sono mosse, inoltre, volte a cercare i voti dei simpatizzanti e dei volontari delle associazioni di cittadini che si ritrovano a “vigilare” al confine con il Messico, come i Minuteman.

Il trattato Inf, Intermediate-Range Nuclear Forces, sui missili nucleari è invece un tema più delicato perché si inserisce nelle strategie di politica estera americane. Il trattato venne firmato nel 1987 dall’allora presidente Ronald Reagan con l’Unione Sovietica al fine di ridurre il numero di missili nucleari a medio raggio, soprattutto quelli dispiegati in Europa. Trump sostiene che la Russia violerebbe il trattato che per di più, essendo bilaterale, avvantaggerebbe la Cina che ne è esclusa.

La posizione del presidente e del suo consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, pur privilegiando l’unilateralismo, non è priva di fondamento. Già Obama aveva minacciato l’uscita dal trattato accusando la Russia di non rispettarlo ed un dibattito sul suo allargamento alla Cina circola da qualche anno. Già la Nuclear Posture Review 2018, il documento di programmazione sull’uso strategico delle armi atomiche, pubblicato a febbraio, suggeriva un rinnovamento del trattato Inf e lo sviluppo di missili intermedi.

La Russia da qualche anno sostiene un ingente riarmo, attua sconfinamenti nella zona NATO e organizza imponenti esercitazioni militari, talvolta assieme alla Cina. La Russia è all’avanguardia nella produzione dei sistemi d’arma, tra cui i missili a medio raggio. Mosca, però, non ha una potenza economica tale da sostenere una nuova corsa agli armamenti, e difatti aspira ad un ruolo di medio – potenza regionale, cercando di riconquistare le zone strategiche di epoca sovietica da cui controllare le sfere di interesse. La Cina, invece, pur avendo la scure di un debito da 6.000 miliardi di dollari, è una potenza economica (in rallentamento), implementa il proprio soft power e costruisce un esercito d’avanguardia con mezzi e sistemi d’arma efficienti ed innovativi.

Come nota il politologo Joseph Nye nel suo volume Is the American Century Over? (Cambridge, Polity Press, 2015) ciò che può effettivamente minacciare lo status di egemonia degli Stati Uniti sono due fattori: l’alleanza tra medio potenze, vedi la Cina e la Russia – che si allarga all’Iran vincente in Medio Oriente – ed una politica presidenziale unilaterale. Proprio ciò che sta accadendo, anche se la mossa Trump-Bolton, secondo alcuni osservatori, potrebbe funzionare. La Cina, infatti, è concentrata sulla realizzazione del piano Made in China 2025, sull’espansione della Nuova Via della Seta e sull’espansione in Africa. Certo, queste iniziative aumentano le entrate delle casse cinesi e la crescita dell’apparato militare vi è già contemplata, ma una corsa agli armamenti è cosa ben diversa. Essa costringe ad aumentare le spese rispetto alle previsioni per non rimanere indietro nei confronti dell’avversario, il che comporta meno risorse per altri progetti. Le domande da porsi sono quindi: la spinta alla crescita economica derivata dall’apparato militare – industriale avvantaggerà o svantaggerà la Cina? Cina e Russia alleate reggeranno e saranno in grado di tenere testa agli Stati Uniti? Possono gli Stati Uniti sostenere una nuova corsa agli armamenti da loro scatenata? Domande difficili che aprono perlomeno tre incerti scenari in Europa: la decisione del presidente degli Stati Uniti potrebbe comportare il ritorno dei missili a medio – raggio sul nostro continente; in alternativa potrebbe favorire un asse franco-tedesco per la creazione di una difesa comune; ultima eventualità potrebbe spostare l’attenzione di Washington sull’Europa dell’est, più intimorita dall’espansionismo russo. Come europei dobbiamo sperare che il debito cinese non porti una nuova crisi della finanza globale e che gli Stati Uniti escano vincitori riabbracciando la prospettiva multilateralista – si potrebbe sostenere che le mosse di Trump cerchino di disciplinare l’Europa per compattarla di modo da avere un alleato forte e meno dispendioso.

Annunciando il ritiro dal trattato Inf Trump ha colto l’occasione per attaccare i democratici, chiedendosi perché Obama non ne fosse uscito quando era presidente. Attaccare l’ex presidente è un’abile mossa perché riconduce alla contrapposizione globalisti vs nazionalisti, “dimostrando” che i democratici favoriscono gli avversari del paese. Inoltre la Russia, nonostante l’amicizia tra Trump e Putin, è il vecchio nemico su cui è facile catalizzare la rabbia per mostrarsi resoluti agli occhi del proprio elettorato.

È sempre attaccando e smantellando l’eredità di Obama che Trump sferra la terza mossa elettorale, annunciando una stretta nei confronti dei diritti dei transgender. Dopo i numerosi passi in loro favore compiuti da Obama, come aprirgli le porte dell’esercito, il presidente sostiene di voler far passare una legge secondo cui il sesso non sia più quello scelto, ma quello registrato alla nascita. Una mossa, questa, che mira ad ingraziarsi i voti della destra religiosa, contraria ai diritti reclamati dalla comunità LGBQT+ e che si inserisce in quella “offensiva” portata avanti in tutto l’Occidente da religiosi e non per limitare o eliminare le leggi sull’aborto e i diritti LGBQT+.

Trump sente quindi avvicinarsi la scadenza elettorale e non vuol perdere: sa che avere una parte del Congresso in mano ai democratici gli renderà la vita più difficile. Solitamente i presidenti cercano di non fare delle midterm un referendum sulla loro persona: Trump, invece, ha deciso di sfruttare la disponibilità a fare di queste elezioni un banco di prova per il suo operato. Per chiamare alle urne il suo elettorato sceglie di subordinare la politica estera e i diritti di molte persone alle esigenze elettorali. Una mossa che continua a fornire l’immagine di un presidente incoerente e concentrato sui propri interessi.

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