Chiamiamolo fascismo, neofascismo o come vi pare ma una domanda al riguardo mi segue da qualche giorno. Una domanda che potrei riassumere così: «come siamo arrivati all’avanzata delle ultradestre?».

I fascistelli (o come vogliate chiamarli) non hanno mai smesso di esistere: ci sono sempre stati nell’Italia repubblicana, solo che nella storia recente non ce ne accorgevamo (o non volevamo accorgercene). Non sono solo i nostalgici, sono anche quelle persone scioviniste, nichiliste, spesso violente, dalle aspirazioni totalitarie e fascinate dal culto della personalità e della razza; di fantasmagoriche idee di radici, di identità nazionale e religione civile, di Roma caput mundi e dell’italianità come valore contrapposto all’immigrazione, alla globalizzazione e alla diversità dell’Unione Europea. Non è necessario essere fascisti per riconoscersi in queste parole, ma è sufficiente trovare una sponda politica che esprima questi concetti e che ti accolga per diventare fascista (o come vogliate chiamarli).

Uno storico sa bene che “l’evento”, inteso come avvenimento fattuale e casuale, non esiste: ciò che appare come tale è infatti frutto dei processi storici che, nel cosiddetto evento, deflagrano o, meglio ancora, si impongono all’attenzione dei nostri occhi – e spesso sono gli occhi dei posteri. Bene, il caso dei fascistelli (o come vogliate chiamarli) è frutto di un medio – lungo processo storico che li ha portati alla ribalta. Un salto qualitativo e quantitativo quindi, ma non una nascita estemporanea.

Ci siamo già scordati di Berlusconi che include Alessandra Mussolini nella compagine governativa e candida Roberto Fiore di Forza Nuova all’Europarlamento, al posto della Mussolini? Oppure, non ricordiamo Berlusconi e i grillini sostenere che comunismo e fascismo non esistono più e che sono due problemi del passato, sottintendendo che son questioni vetuste, da archiviare, di cui non val più la pena parlare?

Ricordo bene quando ero al liceo gli scontri, verbali e non, che avevamo con i fascistelli (o come vogliate chiamarli). Ricordo il 2008, l’anno delle occupazioni contro la Riforma Gelmini, e l’opposizione degli ultrà della destra esprimersi in violenze verbali e fisiche a Roma e anche di fronte a me, nella mia città, coinvolgendo me o i miei amici, presi a colpi di casco o a cinghiate.

Ricordo anche quando ero alle medie: le professoresse di religione e di storia ci spiegavano il fascismo, l’antifascismo, la Shoah, integrando le spiegazioni con film per meglio farci comprendere. Anche al liceo i professori ne parlavano, nella mia sezione in verità un po’ meno, ma tutti sapevamo cosa significasse fascismo e ne parlavamo pure alle assemblee degli studenti, alle autogestioni e alle occupazioni. Ma forse tutte quelle discussioni non sono riuscite ad arrivare al cuore di chi non era politicizzato. Forse, anzi probabilmente, l’antifascismo era, per alcuni, più una roba estetica che contenutistica. Un qualcosa da sfoggiare per far vedere che s’era dalla parte giusta. È vero anche che sono cresciuto in una città universitaria con una storia di impegno politico: Pisa.

Ma chi vota oggi l’ultradestra? E perché lo fa?

Ma, soprattutto, perché siamo passati dal ritenere le parole «fascismo» e «fascisti» un tabù, un’offesa e l’antifascismo un valore da insegnare, al loro contrario? Come è stata possibile questa inversione di tendenza all’interno del regime discorsivo?

Sono queste le domande da porsi e a cui è necessario trovare le soluzioni se vogliamo arginare l’avanzata delle ultradestre. Che la discussione sul tema e sulla sua eredità sia tornata centrale, al di là delle varie e possibili partigianerie, è testimoniato dal dibattito che è intercorso in questi mesi per la successione alla guida dell’Istituto Parri, che coordina i vari organismi locali volti allo studio del movimento di liberazione.

È vero, il Ventennio non ritorna: come potrebbe essere altrimenti? Esso è frutto di un ben determinato contesto storico. Ma nella storia può accadere talvolta che muti la forma ma permanga la sostanza essenziale di certi fenomeni che, in queste caratteristiche essenziali, tendono a reimporsi. Lo fanno perché da un lato c’è chi raccoglie quelle essenzialità, le fa proprie nelle loro caratteristiche decisive e trasferibili da un’epoca ad un’altra, riadattandole ai tempi correnti; dall’altro lato perché la democrazia è anche essere responsabili del benessere l’uno dell’altro. Ma per essere responsabili di questo benessere è necessario essere osservatori della realtà e per farlo è necessario porsi delle domande a cui trovare una risposta.

© Riproduzione riservata

Immagine di copertina di: Cristina Sampaio, http://www.cartooningforpeace.org/evenements/ceci-nest-pas-leurope/