Dalle campagne di Corleone ai quartieri di Palermo. Dai furti di bestiame ai delitti di nemici interni e uomini di Stato. La storia di Totò Riinadeceduto il 17 novembre dello scorso anno a Parma – è la narrazione di un’ascesa criminale quasi inarrestabile, conclusasi solamente il 15 gennaio 1993, al momento della sua cattura.

Riina nacque il 16 novembre 1930 in una famiglia contadina, proprietaria di alcuni appezzamenti. A 13 anni, si ritrovò orfano di padre, morto nel tentativo di estrarre della polvere da una bomba americana inesplosa.

Durante il periodo adolescenziale Riina conobbe Bernardo “Binnu” Provenzano e Luciano “Lucianeddu” Liggio, futuri esponenti di spicco della famiglia corleonese. “Lucianeddu”, il più anziano dei tre, guidava le azioni criminali. Si trattava di furti e atti intimidatori compiuti per  conto di Michele Navarra, all’epoca boss di Corleone. Durante una rissa, a soli 19 anni, Riina uccise un suo coetaneo, venendo condannato ad una pena di 12 anni, scontata parzialmente nel carcere dell’Ucciardone. Nel 1956, una volta uscito di prigione partecipò alla sanguinosa faida interna capeggiata da Liggio contro Navarra e i suoi uomini. Liggio uscì vincitore dal conflitto. Riina parteggiò per lui. Fu così che assieme a “Binnu” Provenzano e Calogero Bagarella, divenne uno dei luogotenenti più fidati di “Lucianeddu”. Nel dicembre 1963, Riina fu  nuovamente arrestato a Corleone, in seguito a un fermo operato da una pattuglia di agenti di Polizia. Il mafioso possedeva una carta d’identità rubata ed una pistola non regolarmente dichiarata. Tuttavia, dopo aver scontato alcuni anni di carcere, il corleonese venne assolto per insufficienza di prove in un processo svoltosi a Bari nel 1969. Dopo l’assoluzione, il corleonese si trasferì a Bitonto (provincia di Bari). Il tribunale di Palermo, però, emise un’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti. Riina tornò quindi a Corleone. Arrestato nuovamente, le autorità preposte applicarono la misura del soggiorno obbligato. Scarcerato e munito di foglio di via obbligatorio, Riina si rese irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza. Era il 18 luglio 1969. Il futuro capo dei capi sarebbe rimasto latitante fino al 1993.

Durante la latitanza il boss corleonese iniziò a costruire il suo potere personale. Fin dai primi mesi di clandestinità, Riina aveva fatto in modo che ogni famiglia palermitana gli mettesse a disposizione uno o due uomini d’onore. Era necessario evitare posti di blocco e controlli quando ci si spostava da una borgata all’altra. In qualsiasi momento e in qualsiasi luogo si trovasse, c’era chi lo accompagnava, chi gli trovava un rifugio sicuro, chi passava la notte sveglio alla sua porta. Riina, con abilità e spregiudicatezza, stava costruendo una schiera di fedelissimi che rispondevano solamente a lui. Una schiera coltivata in gran segreto, alla spalle delle famiglie palermitane. Oltre a ciò, cominciò a crearsi importanti amicizie in seno a Cosa Nostra. Per esempio,  si mise al servizio di Gaetano Badalamenti, potente boss di Cinisi, il mandante dell’omicidio di Peppino Impastato, compiendo delitti e atti intimidatori per suo conto.

Negli anni ’70 del secolo scorso la mafia siciliana gestiva il lucroso business del traffico di stupefacenti. Ogni famiglia partecipava con alcuni uomini scelti. I principali boss palermitani di Cosa Nostra avevano entrate ingenti. La governance interna della mafia siciliana era retta da un triumvirato composto da Stefano Bontante, capo della famiglia di Santa Maria del Gesù (la famiglia mafiosa più numerosa di Palermo), il già citato Badalamenti e Luciano Liggio, rappresentante della famiglia corleonese. Nel 1974, Liggio venne arrestato. Dal carcere, il boss aveva chiesto che i suoi fidati Rina e Provenzano facessero le sue veci alle riunioni del triumvirato. La Commissione, l’organo dove si riunivano i principali boss della mafia, approvò  la richiesta. Tra i due, “Binnu” rimase più defilato, permettendo all’altro di acquisire maggiore prestigio agli occhi dell’élite mafiosa cittadina. In particolare, Riina si avvicinò ai Greco di Ciaculli, famiglia mafiosa con una lunga storia alle spalle, guidata da Michele Greco, detto “Il Papa”. Quest’ultimo diverrà segretario della commissione palermitana – ruolo cruciale dentro Cosa Nostra – nel 1975. L’alleanza tra i Corleonesi e i Greco diede un forte impulso alla scalata interna del Capo dei Capi. Inoltre, di riunione in riunione, si capì come Riina iniziò ad agire di sua iniziativa, lasciando al suo destino carcerario “Lucianeddu” Liggio, defenestrato così dal suo luogotenente.

Con l’ausilio dei suoi uomini più fidati, il boss corleonese iniziò a compiere azioni che destabilizzarono gli equilibri interni di Cosa Nostra. Nel 1971 Riina partecipò all’omicidio del procuratore Pietro Scaglione: era dai tempi dell’omicidio Notarbartolo che la mafia siciliana non ardiva colpire un uomo dello Stato (1893).  Durante la metà degli anni settanta vennero compiuti diversi sequestri di personaggi in odor di mafia(è il caso di Luigi Corleo, suocero dei cugini Salvo), vicini a Stefano Bontate. Quest’ultimo , iniziava ad essere considerato dai corleonesi  un pericoloso avversario interno

I primi anni ’80 segnarono il trionfo del boss corleonese. L’alleanza con i Greco, la forte credibilità interna, gli uomini della sua famiglia e le schiere di mafiosi pronti a tradire i loro capi contribuirono al trionfo. Una serie di fatti che gli permisero di consolidare il suo potere e far fuori gli avversari. Dal maggio 1981 Riina scatenò la sua offensiva, la “seconda guerra di mafia”. Il corleonese eliminò i suoi principali nemici, come Bontate e Salvatore Inzerillo, boss della famiglia di Passo di Rigano. Si trattò di un vero e proprio massacro. Le vittime si contavano solamente da una parte. Furono almeno mille i morti nel biennio ’81 – 83.  Agli avversari interni si sommarono i cadaveri degli uomini dello Stato: Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici. Chiunque osasse opporsi al potere di Riina doveva morire.

Il Capo dei Capi pareva inarrestabile, ma la sua ascesa si trasformò ben presto in decadenza. I numerosi episodi di violenza suscitarono la reazione dell’opinione pubblica e dello Stato, oltre che a indurre alcuni nemici interni a parlare in tribunale. Uomini come Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, vicini alle fazioni perdenti massacrate dai Corleonesi, fornirono la loro testimonianza al pool antimafia guidato da Giovanni Falcone. Le testimonianze, “ a senso unico”, incentrate in gran parte sui crimini commessi da Riina, permisero l’avvio del Maxiprocesso (1986), il primo procedimento giudiziario della storia italiana che certificò l’esistenza di Cosa Nostra come organizzazione mafiosa e condannò a pesanti pene ed ergastoli il gotha della mafia siciliana.

Il Maxiprocesso decretò una sconfitta pesante per Riina e la mafia siciliana, soprattutto con la convalida dalla Corte di Cassazione del 30 gennaio 1992.

La reazione alla sentenza della Cassazione si rivelò rabbiosa e poco lucida. Riina ordinò di uccidere. Il 12 marzo 1992 Salvo Lima, politico democristiano colluso, venne assassinato: si era alla vigilia delle elezioni politiche e, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò a Ignazio Salvo, potente esattore regionale e uomo d’onore. A maggio, invece, con la strage di Capaci nel quale fu ucciso Giovanni Falcone. Cinquantasette giorni dopo toccò a Paolo Borsellino in via d’Amelio.  Nel 1993 iniziarono le stragi di Firenze e Roma, che sono oggetto di indagini giudiziarie su una presunta trattativa tra Stato e mafia.

Il 15 gennaio 1993 terminò la lunga latitanza del Capo dei Capi. La squadra speciale dei Ros guidata dal Capitano Ultimo arrestò il boss corleonese in via Bernini (Palermo).  Una volta finito in carcere, al 41 bis (il “carcere duro” per i mafiosi), Riina è comunque rimasto un simbolo suggestivo del potere di Cosa Nostra, un riferimento concreto per l’organizzazione. Tuttavia, risulta difficile credere che abbia continuato a esercitare la sua leadership. Le condizioni dure previste dal 41 bis, misura efficace nei confronti  dei mafiosi, non prevedono comunicazioni esterni facili per i boss. Inoltre, a partire dal momento dell’arresto di Riina, diversi boss mafiosi , tra cui “Binnu” Provenzano (arrestato nel 2006 e morto nel 2016) e l’ancora latitante Matteo Messina Denaro, sono stati ritenuti dalle autorità investigative i veri capi della mafia siciliana.

Con la sua morte Riina ha portato con sé molti misteri e segreti ancora irrisolti. Ma soprattutto, quando era ancora in vita, ha reso Cosa Nostra la mafia più temibile d’Europa e tra le più pericolose al mondo. Portandola poi, successivamente – a causa della strategia radicale nei confronti dello Stato – a un declino inesorabile.

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Immagine di copertina: https://www.ilpost.it/2017/11/17/toto-riina-morto/