Un grande problema di noi maschi, bianchi, eterosessuali è che non siamo abituati a metterci in discussione: non riflettiamo sulla nostra condizione né tantomeno su quella degli altri perché non ne abbiamo bisogno. È già tutto alla nostra portata, tutto pensato da noi e per noi. Non dobbiamo farci strada nel mondo come invece deve fare una donna, una persona di colore, un omosessuale o un transessuale, per affermare quotidianamente il proprio modo d’essere e i propri diritti. Noi dobbiamo solo farci strada nella vita. C’è una bella differenza.
Sono, queste e quelle che seguiranno, parte delle riflessioni suscitatemi dalla lettura di alcuni articoli, tra cui uno in particolare sui cinque stadi di percezione della mascolinità, e dalle iniziative di Dora Moutot, una giornalista e femminista francese.
Una di queste iniziative risale al 2012, quando Moutot aprì il canale tumblr webcam tears in cui la giornalista ha postato un video, girato con la webcam nella sua stanza, in cui piange invitando uomini e donne a fare altrettanto. Lo scopo era quello di dimostrare come la medesima pressione che governa i corpi delle donne si estenda alle loro emozioni perché, come ha detto la stessa Moutot: «quando diventiamo [noi donne] emotive siamo immediatamente classificate come isteriche o depresse». Un altro risultato ottenuto è stato quello di dimostrare quanto sia difficile che l’immagine online di una donna non sia oggettivata e sessualizzata, anche se sta piangendo e «c’è del moccio che esce dalle sue narici», visto che quando ha pubblicato il suo primo video lo ha poi trovato repostato su vari siti di BDSM.
Qualche mese fa Dora Moutot ha lanciato un’altra campagna di successo su Instagram, t’as joui? (sei venuta?), per stimolare il dibattito intorno al fatto che il sesso, spesso, è tutto a beneficio dell’uomo e non della donna.
Il punto delle riflessioni è come sia il regime discorsivo, sia il regime delle immagini, sia la sessualità che la quotidianità siano pervase da meccanismi formali e informali che tentano di controllare la donna – soprattutto il suo corpo – al fine di subordinarla all’uomo. L’altra faccia della medaglia di questa volontà di dominio maschile è che neanche l’uomo è libero perché egli stesso imprigionato all’interno degli stereotipi e dei pregiudizi che costruisce per mantenere la donna in catene. Se l’uomo è, infatti, abituato a pensare alla donna come caratterizzata dall’eccesso di sentimentalismo e dal bisogno di protezione, allo stesso tempo pensa sé stesso come soggetto virile, forte, non condizionato dal sentimento, bruto e poliziotto. È dunque questo il prezzo che l’uomo paga per la sua volontà di dominio: una vita in malafede, una sessualità repressa e un’insoddisfazione latente che si manifesta ogni qual volta una donna raggiunge uno scopo.
Riflettiamo per un secondo sulla domanda, quasi sempre maschile, t’as joui?. La maggior parte degli uomini che leggono questo articolo sanno che spesso viene posta più per avere una soddisfazione personale che per reale interesse e per vera partecipazione alla dimensione dell’altro, quasi che la risposta affermativa sia un trofeo, uno scalpo da esibire nella tribù degli amici. Un’esigenza, quella implicita nella domanda sei venuta?, di vivere soddisfacendo il proprio ego nel contesto del gruppo che, di fatto, nella sua omoeroticità latente è misogino.
Ciò che noto è una larga diffusione del preconcetto relativo alla passività della donna in ambito sessuale in quanto, si dice, è il maschio che ha un ruolo attivo perché la donna è solamente passiva. E ciò viene spiegato da questi campioni della mascolinità con il fatto che accoglie dentro di sé il membro maschile il quale, per entrare, deve essere “spinto” dall’uomo (una così evidente azione attiva). Dimentichi in ciò che il ruolo attivo non è dell’ospite, che viene coccolato, ma del padrone di casa che fa gli onori, si premura di far star bene l’ospite. Forse è questo il sottotesto: la donna deve far star bene l’uomo, non sé stessa, quindi deve sottomettersi per poter raggiungere questo scopo. Ma ancora: io starò bene nella casa di chi mi ospita se questi è se stesso, non se si annulla. Il sottotesto è, quindi, che l’uomo ha bisogno di essere coccolato e questo può vuol dire due cose: da un lato che ha bisogno di affetto (non c’è nulla di male, anche se scardina lo stereotipo della virilità), dall’altro che potrebbe esserci un conflitto di Edipo irrisolto. Se il sesso è un qualcosa che si fa in due non vedo come l’uomo possa avere un ruolo attivo e la donna no. Può esserci sottomissione, prendere l’iniziativa, ma il sesso è reciprocità e non è possibile ridurre la questione alle parole attivo/passivo traslando questo presunto ruolo sessuale all’interno della società. Non vedo proprio come il membro possa rendere l’uomo un soggetto più attivo, anche perché «prendere» non è certo un atto passivo: significa afferrare, compiere un atto che, in quanto tale, è attivo.
Noi uomini non sappiamo quasi niente della sessualità femminile perché vi si proietta sopra il nostro immaginario sessuale, il che significa o ritenere la sessualità femminile un sentimentalismo, o non interessarsene e ritenere la sessualità femminile un oggetto per il nostro soddisfacimento, oppure non sapere di che cosa si sta parlando, o ancora preoccuparsene perché ti interessa dell’altro senza però riuscire a capire perché ci sono le barriere, la timidezza, i tabù, l’imbarazzo e così via.
Se la donna manifesta il proprio pensiero, se ricerca il piacere, se sceglie di avere più partner sessuali di quanto suggerito dal “comune buon senso”, o di averli al di fuori di un rapporto stabile, allora è una «troia» o una «puttana», espressioni a dir poco colorite che non solo denigrano la prostituta ad un qualcosa di orripilante, ma che pretendono di giudicare un comportamento al fine di mantenere il primato maschile, in quanto a giudicare è comunque l’uomo, non la donna.
Se una donna segue il proprio desiderio sessuale non solo è troia ma probabilmente è anche malata, affetta da qualche patologia come la ninfomania. In alternativa è una «zoccola», cioè una femmina di topo di strada, espressione che ben mostra il significato sottointeso: la sporcizia e la bassezza come metafora dell’essere impuri. In altri casi è semplicemente una «porca», espressione che ha la stessa utilità del termine troia ma che richiama più la dimensione della donna succube e schiava del suo desiderio, a differenza dell’uomo che riesce a controllarsi – ancora il tema della sottomissione.
Se le offese troia, puttana e zoccola denigrano e cercano di annichilire la volontà e la libertà della donna, la terminologia maschile per definire una donna o una ragazza «bella» sono esemplificativi del dominio implicito veicolato dal regime discorsivo e del tentativo di sminuirla. Se infatti una donna è bella si dice che è una «fica», cioè la si riduce all’organo riproduttivo, alla sua funzione di oggetto che soddisfa il piacere maschile: la sua bellezza è lì, nella vagina, e non può essere altrove.
Nell’uso terminologico dell’offesa è interessante notare come rispetto all’ampia gamma di offese per i gay per le lesbiche non si possa dire altrettanto. Se non c’è termine più offensivo di «lesbica di merda» è perché nell’immaginario maschile permane quell’idea della lesbica che comunque ha bisogno di un fallo per raggiungere il piacere, quindi non è realmente lesbica e sogna, segretamente, di concedersi all’uomo, magari in un rapporto a tre con un’altra donna. Oppure vale lo stereotipo della lesbica brutta e maschiaccia perché gli uomini non la vogliono. Inoltre, considerando che la maggior parte delle offese per gli uomini omosessuali vengono fatte con il ricorso alla convinzione secondo cui sarebbero più vicini alle donne che agli uomini, nei comportamenti e nel modo di fare, si può sostenere che anche in questo caso la degradazione è, nuovamente, al femminile. Invece, l’assenza di un’offesa specifica per le lesbiche è forse peggio, in questo senso, perché sottolinea la volontà di far finta che le lesbiche, in quanto donne, non esistano.
«Ora non mi sento più una puttana, ma il marchio sociale che imprimono sulla prostituzione è qualcosa di molto potente. Fa della prostituzione una specie di stato assoluto di modo che una puttana sarà sempre una una puttana. È come se…se lo fai una volta, lo diventi. È per questo che è cosi facile restare incatenati in questa situazione. […] È buffa questa espressione: «vita normale»…la stessa espressione che si usa per gli omosessuali. Mi chiedo qual è il contrario di «normale». Anormale? Mostruoso? E il sinonimo di «normale»? «Perfetto», immagino. Buffo che quei due mondi si servano della stessa espressione. Anche la malavita. Sono tre gruppi di emarginati».
(Kate Millett, Prostituzione, Torino, Einaudi, 1975, pp. 27-29).
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.