Da ormai trentatré anni negli Stati Uniti il terzo lunedì di gennaio viene celebrato Martin Luther King grazie ad una legge firmata nel 1983 dall’allora presidente Ronald Reagan. Alla sua figura sono infatti collegate le principali conquiste degli afroamericani in materia di diritti civili, ovvero il Civil Rights Act del 1964, che pose fine alla segregazione vigente negli Stati del Sud e il Voting Rights Act del 1965. Il giorno venne scelto in quanto vicino a quello di nascita del pastore battista, ovvero il 15 gennaio.
Bisogna tuttavia dire che il procedimento per arrivare all’istituzione del Martin Luther King Day fu lungo e non privo di ostacoli: la proposta venne avanzata già pochi giorni dopo l’assassinio di King, avvenuto il 4 aprile del 1968, ma non venne accolta e così fu anche per gli anni successivi; i vari tentativi non si concretizzarono e sul finire degli anni ’70 furono organizzate delle marce per convincere il Congresso ad approvare l’iniziativa, cosa che avvenne, come detto, agli inizi degli anni ’80.
Certamente King è stato assimilato all’interno della memoria collettiva come il “profeta della non violenza”, come abile oratore dedito alla causa integrazionista e alla battaglia per i diritti civili, nonché premio Nobel per la pace; tutti questi elementi lo avevano condotto ad un’ascesa che si era però bruscamente interrotta in seguito alla radicalizzazione della protesta della seconda metà degli anni ’60, segnata dall’esplosione dei riots urbani e dalla nascita del Black Power.

Bobby Seale e Huey Newton
Tuttavia anche questo “Secondo Martin Luther King”, il Martin Luther King degli anni che vanno dal 1965 al 1968, ci permette di comprendere in profondità l’evoluzione politica di un uomo che cercò di capire le trasformazioni sociali e politiche di quegli anni senza subirle: basti pensare che quest’ultimo, pur condannando l’utilizzo della violenza e decretandone l’inutilità, tentò di analizzare le reali motivazioni dei tumulti che colpirono le grandi città americane a partire dal 1965, al contrario di molti altri esponenti di primo piano dell’intero movimento per i diritti civili.
Secondo quanto hanno fatto notare Paul Jacobs e Saul Landau, dopo aver raggiunto l’apice della propria popolarità nel 1964, King iniziò ad immaginare che la posizione raggiunta gli garantisse un certo margine di autonomia rispetto al presidente Johnson, la cui collaborazione era stata fondamentale per arrivare al traguardo del Civil Rights Act. Per questo si lasciò andare ad alcune dichiarazioni pubbliche dubbiose sulla partecipazione delle truppe americane alla guerra in Vietnam; tuttavia queste finirono per infastidire Johnson che da parte sua non gradì. Da qui King iniziò, secondo gli stessi Jacobs e Landau, a limitare le proprie uscite pubbliche probabilmente per il timore che, qualora si fosse allontanato dalla presidenza, l’intero movimento avrebbe potuto risentirne.[1]
Anche a causa di simili vicissitudini, una volta esploso il riot di Watts dell’agosto 1965, Martin Luther King fu percepito come un corpo estraneo dagli abitanti del quartiere di Los Angeles e finì per essere contestato.[2] Poi vi furono gli esordi del Black Power che resero sempre più evidente la perdita di consensi degli integrazionisti, i quali pagavano sia le conseguenze date dall’avere raggiunto i loro obiettivi dichiarati sia la diversa matrice delle proteste che si erano spostate dalla dimensione legale a quella economica e sociale.
Fu a questo punto che King prese una decisione inaspettata: al contrario degli altri esponenti delle organizzazioni integrazioniste che componevano il Civil Rights Movement decise di trasferirsi a Chicago per cercare di analizzare dall’interno la realtà del ghetto urbano. Fu uno sforzo di comprensione che, come ha fatto notare Bruno Cartosio, influì sul proprio percorso politico e determinò una rilevante evoluzione. Ciò significa che l’esperienza di Chicago ebbe un notevole peso sull’elaborazione politica del massimo esponente del Civil Rights Movement, il quale, confermando la presa di posizione non violenta, ricalibrò il proprio pensiero su diverse altre questioni. Fu così che le sensazioni che lo avevano portato a criticare Johnson e la scelta di intervenire in Vietnam nel 1964 ritornarono con maggiore forza e convinzione, potendo poggiare adesso anche sui dati tratti dall’esperienza diretta.
Il culmine di questo percorso, che lo stava portando a trasformarsi da attivista a politico, fu probabilmente rappresentato dal discorso alla Riverside Church di New York, pronunciato il 4 aprile 1967 e pubblicato con il titolo A time to break silence, in cui criticò in maniera approfondita l’escalation in Vietnam. Durante questo discorso le sue parole di critica alla guerra in Vietnam si intersecarono con la denuncia delle disuguaglianze sociali sedimentatesi nella società americana, elaborando così un duro atto di accusa nei confronti della politica di Lyndon Johnson.
Innanzitutto la guerra in Vietnam andava condannata anche per le sue conseguenze sul piano economico e sociale: le spese militari infatti avrebbero tolto fondi a quella “Great society” johnsoniana e a quella guerra alla povertà che avevano suscitato numerose speranze in buona parte della popolazione americana e che egli stesso aveva sostenuto. Tutto questo produceva un cortocircuito tale da far vacillare, almeno in parte, anche la propria idea di non violenza, che tuttavia non fu mai messa in discussione: ad esempio durante la sua esperienza di Chicago egli si trovò in difficoltà nello spiegare ai giovani abitanti del ghetto che l’utilizzo delle molotov e della violenza in generale non avrebbe potuto risolvere i loro problemi dato che, come quest’ultimi gli avevano fatto notare, gli Stati Uniti stavano facendo qualcosa di sostanzialmente peggiore in Vietnam.
Allo stesso modo nel suo ultimo articolo (pubblicato postumo) affermava che quella che lui definiva la “rivoluzione nera” costringeva il Paese a guardare in faccia tutti i suoi mali come “una guerra immorale che costa quasi trenta miliardi di dollari l’anno”, il razzismo e la presenza di quaranta milioni di poveri in un periodo di grande ascesa economica.
Non si trattava di un tentativo di allinearsi con le nuove tendenze nazionaliste e radicali del movimento nero ma piuttosto di mostrare in tutta la sua evidenza, come ha fatto notare il già citato Cartosio, un radicalismo etico che era sempre stato presente in lui e che a partire dalla seconda metà degli anni ’60 andò a fondersi con le dure accuse nei confronti del presidente Johnson e in particolare della sua politica estera ed interna[3].

Joan Baez e Bob Dylan alla marcia su Washington (28 agosto 1963)
Ecco che emergeva il King attento ed interessato ai temi della giustizia sociale ed economica, come dimostrato dalla prima bozza del discorso preparato per la marcia su Washington del 28 agosto 1963, incentrata proprio su tali tematiche ma poi messa da parte per fare spazio alla questione dei diritti civili e dell’integrazione razziale.
Come affermato da Arnaldo Testi infatti emergono molteplici aspetti della figura di King: egli era intenzionato a cambiare il suo Paese sia sul piano dei diritti civili sia sul piano economico e sociale ma allo stesso tempo era consapevole che per farlo sarebbe stata necessaria non solo determinazione e volontà ma anche capacità di stringere accordi e di fare compromessi, come si conviene ad un abile politico dotato di pragmatismo.
Di ciò era consapevole anche l’FBI che infatti temeva che lo stesso Martin Luther King potesse diventare una sorta di “Messia nero” capace di fare da collante tra le varie organizzazioni afroamericane e tra le varie anime del movimento nero.
La sua elaborazione politica fu tuttavia tragicamente interrotta il 4 aprile 1968 quando venne assassinato a Memphis dal razzista James Earl Ray: quest’ultima tuttavia risulterebbe essere una componente fondamentale di un uomo che anche dopo avere raggiunto il culmine della propria popolarità non rinunciò al tentativo di comprendere in profondità e in prima persona le cause degli eventi e le reali condizioni di quegli individui dei quali mirava a migliorare l’esistenza.
[1] Bruno Cartosio, I Lunghi anni sessanta. Movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti, Feltrinelli, Milano 2012, p. 196.
[2] Enrico Beltramini L’America post-razziale. Razza, Politica e Religione dalla Schiavitù a Obama, Einaudi, Torino 2010, p. 120.
[3] Bruno Cartosio, I Lunghi anni sessanta, cit. p. 198.
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Sono nato nel 1992 a Pisa. Mi sono laureato in Storia Contemporanea all’Università di Pisa con una tesi sulla radicalizzazione del Civil Rights Movement afroamericano all’interno della stampa italiana. Nel corso dei miei studi mi sono occupato in particolar modo di storia culturale degli anni ’60. Ho inoltre collaborato con un portale online (Bzona.it) che si occupa di calcio e con altri siti e blog che si occupano di politica e musica, di cui sono un grande appassionato.