Chi racconta le mafie rischia la vita. Lo sa bene Paolo Borrometi, giornalista di Tv2000 e direttore de LaSpia.It, minacciato la scorsa settimana da Cosa Nostra. “Picca ‘nnai”, “poco ne hai da vivere”, hanno scritto nella lettera minatoria a lui indirizzata. Probabilmente lo sapeva anche Mario Francese, cronista del Giornale di Sicilia, ucciso dalla mafia il 26 gennaio 1979. Venne freddato da una calibro 38. Gli sparò il corleonese Leoluca Bagarella.

I cronisti di mafia mettono a repentaglio la propria vita facendo il loro mestiere. Scrivono, raccontano, cercano la verità. Non compiono gesta eroiche, ma semplicemente svolgono una funzione, riconosciuta dall’ art. 21 della Costituzione. Una funzione tanto basilare quanto preziosa: quella di informare.

I giornalisti impegnati a raccontare le organizzazioni criminali presenti nel nostro paese portano un contributo fondamentale alla comprensione del fenomeno mafioso. Tutti i giorni operano sul territorio con coraggio, costanza e fatica. Devono conoscere i luoghi in cui agiscono, essere sentinelle in grado di suonare l’allarme. Sono un presidio della legalità in movimento permanente, da Nord a Sud. Se in questi anni si è cominciato a parlare di infiltrazioni mafiose in Lombardia, Emilia Romagna e – come mostra questo recente articolo – Valle D’Aosta, lo dobbiamo a loro. Hanno operato in avanscoperta, narrando la risalita delle mafie verso Nord, pronte a espandersi anche in Europa e in altri continenti. Un lavoro che molte volte non è stato remunerato a sufficienza, da un costo umano non indifferente. Minacce continue, isolamento, lusinghe e ammiccamenti. Occhi aperti per cercare di prestare attenzione alle persone con cui si parla.

Un lavoro che richiede anche tanto studio, perché quello delle organizzazioni criminali è un mondo complesso, in cui si rivela fondamentale l’analisi del contesto socio – politico. È importante quindi rendere comprensibile un fenomeno che molte volte viene banalizzato e semplificato nella discussione pubblica. Serie Tv, libri e rappresentazioni che narrano le gesta di boss e narcotrafficanti possono suscitare una certa “fascinazione del male” in un pubblico poco avveduto. Ma ciononostante non vanno condannate o messe all’indice. Il punto è che il pubblico  deve avere dalla sua la capacità di interpretare i contesti e i messaggi che riceve. Una capacità da sviluppare con il tempo, che prescinde inevitabilmente dall’esistenza di una buona informazione.    

I cronisti di mafia sono investiti di un ruolo primario. Devono segnalare e raccontare le infiltrazioni mafiose, “infezioni” che si diramano nel corpo sociale. Occuparsi di ciò significa farsi molti nemici, talvolta potenti, provenienti dal mondo politico ed economico. Le inimicizie che si creano per il solo fatto di aver svolto il proprio dovere hanno ripercussioni nella vita di questi giornalisti, costretti a vivere sotto scorta perché minacciati dagli ambienti criminosi.      

Le mafie vogliono che di loro si parli il meno possibile. Non amano i riflettori puntati. L’ideale, per loro, sarebbe l’assoluto silenzio. Un silenzio che non è possibile grazie all’impegno quotidiano di chi sceglie di scrivere, raccontare e cercare la verità. In poche parole, di chi sceglie di fare giornalismo.


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