Il 25 gennaio del 2016 Giulio Regeni, ricercatore presso l’università di Cambridge, scompariva al Cairo in Egitto, dove si trovava per portare avanti una ricerca di dottorato sui sindacati del Paese. Di lui non si seppe nulla fino al 3 febbraio quando il suo corpo venne ritrovato abbandonato vicino ad una prigione dei servizi segreti egiziani. Due mesi fa proprio cinque persone appartenenti ai servizi segreti egiziani sono state iscritte nel registro degli indagati della procura di Roma la quale però non ha ricevuto nessuna collaborazione da parte delle autorità egiziane.
Questo è solo l’ultimo capitolo di una storia fatta di depistaggi, bugie ed ipocrisie da parte dell’Egitto del presidente Al Sisi, dove a partire dal colpo di stato del 2013 si sono susseguite sparizioni, arresti e torture nei confronti degli oppositori politici.
E’ stata la stessa procura di Roma a parlare di una lunga serie di tentativi di depistaggio da parte delle autorità, le quali prima associarono la morte del ricercatore italiano ad un incidente stradale per poi passare ad accusare una banda di criminali specializzata in rapine a danno di stranieri. Eppure i segni trovati sul corpo, le dita spezzate, le vertebre fratturate e i denti rotti sembravano parlare da soli: Regeni era stato torturato brutalmente per giorni.
Perché ciò sia avvenuto non è ancora chiaro: si sa solo che Regeni era interessato ad ampliare la propria ricerca e che ciò lo avrebbe portato a mettersi in contatto con Mohamed Abdullah, uno dei leader del sindacato indipendente degli ambulanti, che però il 7 gennaio del 2016 avrebbe denunciato Giulio alle autorità egiziane. Quest’ultime da parte loro dichiararono di avere archiviato il caso dopo pochi giorni ma a fine mese, come ricordato, Giulio scomparve.
Sulla vicenda ci sarebbero quindi ancora molti nodi da sciogliere, cosa difficile da fare perché i filmati provenienti dalle telecamere che si trovavano nella stazione dove Regeni è scomparso sono mancanti.
Ciò comunque non ha impedito che venissero fatte numerose ricostruzioni: ad esempio il quotidiano “La Stampa” in un articolo del 21 agosto 2017 pubblicò la dichiarazione di una fonte legata all’amministrazione statunitense in base alla quale Giulio Regeni sarebbe stato ucciso dai servizi di sicurezza egiziani, secondo quanto rivelato da alcuni informatori interni agli apparati egiziani: “Giulio Regeni sarebbe stato ucciso dai servizi di sicurezza egiziani o da gruppi affiliati. Questo è un fatto di cui il governo americano è assolutamente sicuro e ne possiede le prove. Vista la stretta collaborazione tra i nostri apparati di intelligence e i vostri, sarei molto sorpreso se non avessero informato i colleghi italiani di quanto sapevano”.
Egli sostiene dunque che l’ordine di colpire Regeni sia venuto dall’alto; probabilmente direttamente dal presidente Al Sisi che avrebbe chiesto di dare una lezione al ricercatore italiano per spaventare gli stranieri presenti in Egitto. Da lì i servizi di sicurezza sarebbero andati perfino oltre le richieste di Al Sisi torturando e uccidendo il ragazzo friulano.
L’articolo prosegue poi con la testimonianza di un’altra fonte dell’intelligence che invece è convinta che Regeni sia stato vittima di una “turf war”, ovvero una guerra interna tra i vari apparati dei servizi di sicurezza.
Anche di fronte a queste ipotesi, oltre ai depistaggi e agli atteggiamenti di chiusura del governo egiziano, i governi italiani succedutisi negli anni hanno mantenuto un atteggiamento apparentemente teso a privilegiare i rapporti diplomatici ed economici con l’Egitto a discapito della verità sulla sorte del proprio connazionale.
Il governo presieduto nel 2016 da Matteo Renzi infatti decise di ritirare l’ambasciatore italiano in Egitto solo diversi mesi dopo i fatti del Cairo ma soprattutto il governo Gentiloni scelse di nominare un nuovo ambasciatore italiano al Cairo appena un anno dopo, quando le indagini erano ancora in corso, scatenando la rabbia dei genitori di Giulio.
Tuttavia il punto più imbarazzante di questo processo fu probabilmente raggiunto dall’allora ministro degli Esteri Angelino Alfano che, durante la conferenza stampa in occasione proprio della nomina del nuovo ambasciatore italiano, parlò dell’Egitto come “partner ineludibile” e descrisse il presidente egiziano Al Sisi come “interlocutore appassionato nella ricerca della verità”. Lo stesso Alfano inoltre assicurò che l’invio dell’ambasciatore avrebbe favorito la ricerca della verità ma così non è stato: anzi la maggior parte della stampa egiziana accolse la stessa notizia come una sorta di resa da parte del governo italiano.
Questa sensazione si è in parte diffusa anche nel nostro Paese in seguito al succedersi di nuove incredibili prese di posizione: l’ex premier Renzi infatti, in occasione di un’intervista rilasciata al programma Rai “Che tempo che fa”, ribadì l’idea già espressa su Twitter e diffusa da molti quotidiani secondo la quale le autorità giudiziarie avrebbero dovuto approfondire maggiormente la posizione dell’Università di Cambridge e della relatrice di Giulio, in virtù di un’indiscutibile logica basata sul principio dell’ “anche lì c’è qualcosa che non torna”.
In pratica, secondo quanto fatto notare da Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, una doverosa richiesta di rogatoria internazionale da parte della procura di Roma al fine di acquisire ulteriori informazioni utili alle indagini, è stata utilizzata come strumento per avviare una campagna di opinione tesa ad indebolire l’attenzione sulle sempre più evidenti responsabilità del governo egiziano, con il quale nel frattempo è stata rafforzata la partnership commerciale.
Anche l’attuale governo Conte non ha marcato alcuna discontinuità sulla questione: il vicepremier Matteo Salvini ha infatti rilasciato dichiarazioni che sostanzialmente ricalcano quelle fatte da Alfano mentre l’iniziativa del presidente della Camera Roberto Fico di sospendere i rapporti con il parlamento egiziano è rimasta praticamente isolata.
In definitiva la verità riguardante l’omicidio di Giulio Regeni sembra essere stata sostanzialmente sacrificata di fronte all’esigenza economica e diplomatica di mantenere buoni rapporti con il governo di Al Sisi; come se la sorte di un giovane connazionale non rappresentasse un fatto così importante da pregiudicare i rapporti con l’Egitto.
Eppure scoprire chi e per quale motivo abbia ucciso il ragazzo di Fiumicello dovrebbe rappresentare non solo l’unico modo per garantire giustizia a Giulio e alla sua famiglia ma anche la via per sancire e garantire la libertà della ricerca universitaria che in questa vicenda è risultata essere troppo spesso marginalizzata.
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Sono nato nel 1992 a Pisa. Mi sono laureato in Storia Contemporanea all’Università di Pisa con una tesi sulla radicalizzazione del Civil Rights Movement afroamericano all’interno della stampa italiana. Nel corso dei miei studi mi sono occupato in particolar modo di storia culturale degli anni ’60. Ho inoltre collaborato con un portale online (Bzona.it) che si occupa di calcio e con altri siti e blog che si occupano di politica e musica, di cui sono un grande appassionato.