Nel cuore di un giovane studente, di un aspirante dottorando ed anche di un dottorando e di ogni accademico la vicenda di Giulio Regeni colpisce profondamente perché porta con sé, oltre alla tragedia, l’immedesimazione. Colpisce, poi, la forza, la costanza e la dignità dei genitori di Giulio: martoriati due volte, prima dall’assassinio del figlio, poi dalle travagliate vicende giudiziarie ed investigative su cui ogni giorno cala sempre più un velo di pessimismo.

La vicenda di Giulio Regeni è una vicenda in cui è stata attaccata la libertà e la dignità umana: innanzitutto quella di Giulio, come persona ma anche come dottorando; quindi della ricerca poiché un attacco ad un ricercatore è un attacco ad ogni ricercatore e al libero studio con il fine di minare la basi epistemologiche della ricerca mettendo in discussione una deontologia professionale che è innanzitutto una vocazione. Colpirne uno per educarne cento, mille, un milione. Una strategia che sta funzionando, come è stato sottolineato il 29 gennaio presso l’Università di Pisa, visto che la ricerca e il giornalismo in Egitto sono diminuiti drasticamente.[1]

L’Egitto del 2016, quando scomparve e venne poi assassinato Giulio Regeni, era l’Egitto dominato dal generale al-Sīsī salito al potere con un colpo di Stato coadiuvato da una parte delle forze armate il 3 luglio 2013. Era, e rimane, un paese particolare non certo privo di rischi ma come è stato sottolineato, sempre il 29 gennaio, in cui mai un ricercatore straniero era stato vittima di torture e di omicidio. Già prima della vicenda Regeni, comunque, in Egitto il ricorso alle torture, agli arresti come arma politica ed alle sparizioni era, e continua ad essere, una pratica largamente diffusa come testimonia un’indagine di Amnesty International. Nel Sinai e in molte località turistiche vi erano infiltrazioni dell’ISIS. Nel 2011 era inoltre scoppiata la questione libica, da cui nel 2014 la Francia di Hollande si ritirò, mentre il Regno Unito era sempre più concentrato sul dibattito della Brexit (il referendum fu deciso nel 2015 e nel 2016 ci fu il voto). La Libia era divenuta uno snodo internazionale, non solo per le sue riserve di greggio e di gas, ma soprattutto per la gestione dei flussi migratori in quanto le sue coste erano il luogo da cui molti migranti partivano. Nel crescente disimpegno internazionale dal contesto libico Al – Sīsī decise di appoggiare il leader della Cirenaica generale Khalifa Haftar, divenuto poi una delle due maggiori autorità libiche su cui le Nazioni Unite e gli attori impegnati nella pacificazione cercano di far pressione affinché trovi un accordo con la sua controparte di Tobruk. Al- Sīsī si rendeva quindi capo di uno Stato, per quanto di per sé già rilevante, centrale nella gestione delle dinamiche libiche che interessavano ed interessano il governo Italiano per la questione migratoria. Il Presidente dell’Egitto riusciva così nell’intento di rafforzarsi nel consesso internazionale, un aspetto da non trascurare nella vicenda Regeni perché è ciò che in parte rende così difficile avere dei progressi nelle indagini. Difatti il governo italiano, pur avendo fatto pressioni su quello egiziano, ad esempio ritirando l’ambasciatore nel 2016, ha un interesse di primaria importanza a non far nascere una crisi definitiva con il Cairo visto che questo è un attore di primo piano nel contesto libico. Tesi suffragata dal prevalere della realpolitik per cui non solo nel 2017 è stato mandato un nuovo ambasciatore in Egitto (il precedente, Maurizio Massari, aveva probabilmente deteriorato i propri rapporti con il Cairo e si suppone vi siano stati degli attriti con la Farnesina riguardo la gestione della vicenda Regeni), ma anche dalle attività commerciali, tra cui anche quelle dell’Eni, che non sono mai venute meno. Una cinica realpolitik  esplicitata anche dal ministro degli Interni Matteo Salvini l’estate scorsa quando ha sostenuto che: «per noi, l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto». La stabilità egiziana e i buoni rapporti con Il Cairo sono, con mio grandissimo rammarico e disappunto, un tassello importante per Roma, così come per l’Europa e ciò può in parte contribuire a spiegare la mancata presa di posizione, in maniera netta, dell’Unione Europea in cui certamente ha influito anche l’assenza di una visione di politica estera comune.

L’Egitto è un paese in cui le forze armate hanno una notevole influenza nelle questioni interne per ragioni storiche troppo lunghe da spiegare qui. Ciò che è importante sottolineare, invece, è il ruolo che le rivalità interne tra forze armate, la National Security Agency e la polizia possono aver giocato nella vicenda. Il regime di Al – Sīsī era un regime debole poiché parte dell’esercito, da cui lo stesso Al – Sīsī proveniva, non lo appoggiava. La scomparsa di Regeni è durata all’incirca nove giorni (dal 25 gennaio al 3 febbraio 2016): un arco di tempo molto lungo in cui Giulio ha subito torture che, per la durata e l’intensità, hanno provocato una morte prolungata al dottorando. In Egitto solamente le forze armate, i servizi segreti e la polizia hanno le competenze per torturare una persona lasciandola in vita per così tanto tempo come è successo a Regeni. Non è plausibile, inoltre, che si sia trattato di un errore: un errore durato più di una settimana, la scomparsa di un ricercatore straniero di cui il ministro degli Interni non poteva che esserne informato in un paese dove dominano i servizi segreti, non può che essere un’interpretazione forzata. Se escludiamo questa pista non rimangono che due alternative: una lotta interna tra centri di potere; la volontà di «colpirne uno per educarne molti».

Ad oggi è difficile stabilire una verità su tutte le questioni che rimangono irrisolte per l’ostruzionismo del governo egiziano e per l’incapacità, ma vuoi soprattutto la non volontà, del governo italiano, la cui diplomazia ha inoltre un piccolo peso specifico, di far avanzare le indagini. Dopo tre anni mancano ancora i mandanti dell’assassinio di Giulio, mancano i perché dell’omicidio, manca una risposta al perché Regeni non sia stato semplicemente espulso. Ancora non sappiamo dove è stato rapito: all’uscita di casa o all’uscita della metro? Con il passare degli anni ed il rischio che la vicenda di Giulio Regeni venga dimenticata, diventa sempre più difficile ottenere delle risposte. Difficoltà cui si aggiunge l’assenza di accordi e protocolli tra Roma ed Il Cairo per la cooperazione legale, motivo per cui non è possibile fare una rogatoria per gli interrogatori.

Quando la vicenda Regeni riempiva le pagine dei quotidiani ed i titoli dei telegiornali si è assistito ad un proliferare di ipotesi ai limiti della diffamazione. Il governo egiziano ha tentato di depistare le indagini sostenendo prima un possibile movente sessuale, poi una pista legata alla droga. Infine è sorta la voce secondo cui Giulio lavorava per i servizi segreti britannici, tesi sostenuta anche in Italia da molti giornalisti e politici e che tutt’oggi continua ad avere molto appeal. Tesi smentite dalle indagini ma anche dall’assurdità delle loro pretese, perlomeno agli occhi di chi si occupa di questioni internazionali. Tesi che erano accuse rivolte verso Giulio ed una giustificazione per un delitto di difficile comprensione perché collocato all’interno di un quadro complesso e che hanno portato, in Italia, a far prevalere il provincialismo. L’Italia soffre di un grave deficit, nonostante la sua posizione geostrategica, che consiste nel voler ignorare la realtà al di fuori dei propri confini. È, forse, la mia un’accusa dura, ma non credo esagerata. In Italia spesso viviamo in una bolla di malafede in cui facciamo prevalere l’ignoranza dei meccanismi e delle dinamiche internazionali. Volontà di ignorare che mascheriamo con spiegazioni superficiali che trasformiamo in accuse come quelle rivolte alla tutor di Regeni, divenuta il capro espiatorio della vicenda. Non è possibile accusare una tutor di un omicidio: significa ignorare come funziona la ricerca universitaria, spostare l’attenzione dal vero problema ad uno che non lo è, significa non informarsi su che cosa sia la ricerca partecipata che faceva Giulio, una ricerca che per sua natura non può che essere fatta sul campo, certamente con i rischi del caso ma di cui un ricercatore è consapevole.

Il problema riguarda il legame tra sicurezza e libertà della ricerca accademica, su cui non posso soffermarmi se non per sottolineare come il dibattito che ha caratterizzato la vicenda Regeni non vi abbia mai indugiato, se non marginalmente. La verità per Giulio, e con essa la libertà della ricerca, sono ben lungi dall’essere un argomento seriamente dibattuto così da poter sperare che i genitori di Regeni ottengano finalmente giustizia.

Ps: se non lo avete già fatto è ancora attiva la raccolta firme di Amnesty International per chiedere verità su Giulio Regeni. Qui di seguito trovate il link dove potete firmare: https://www.amnesty.it/appelli/corri-con-giulio/?fbclid=IwAR3IROgwtmNgNSCu3mspZEnhmF25O5H_GgXQchmInDj-QBCXx03uuSx_XRw

[1] Queste riflessioni sono in gran parte una rielaborazione del dibattito sorto in seguito alla proiezione del documentario Nove giorni al Cairo presso l’Università di Pisa il 29 gennaio 2019. Al dibattito erano presenti diversi professori e dottorandi. I dati che cito sono quindi estrapolati dai miei appunti motivo per cui mancheranno alcuni riferimenti bibliografici. Per una timeline sulla vicenda potete trovarla qui.

Pic credits: https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-08-23/la-protesta-universita-inglesi-non-dimentichiamo-giulio-regeni-191055.shtml?uuid=AEdJ4feF

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