Giovedì scorso la Francia ha richiamato per consultazioni il proprio ambasciatore in Italia, rendendo ancor più tangibile la crisi tra Roma e Parigi che si trascina a suon di polemiche ormai da qualche mese.

L’ambasciatore è un agente diplomatico di massimo grado: rappresentando all’estero il proprio Stato è colui che mantiene il dialogo politico tra il paese ospitante ed il paese di provenienza. Il ritiro di un ambasciatore è quindi un atto gravissimo dalle rilevanti conseguenze. Facendo degli esempi, l’Italia ha ritirato il proprio ambasciatore dall’Egitto nel 2016 per la scarsa collaborazione delle autorità egiziane nel caso Regeni; ancora, Roma decise di ritirare l’ambasciatore italiano in India nel 2014 vista la crisi nata intorno alla vicenda dei due fucilieri Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. L’ultima volta che l’ambasciatore francese era stato richiamato dall’Italia era il 1940 e Roma aveva appena dichiarato guerra alla Francia.

Francia ed Italia sono alleati da decenni e sono due paesi membri dell’Unione Europea: ciò conferisce maggior gravità a questa crisi diplomatica, anche perché il ritiro di un ambasciatore è, generalmente, il passo che precede la rottura delle relazioni diplomatiche.

Dall’insediamento dell’attuale governo ad oggi le critiche e le accuse al governo francese si sono succedute quasi senza interruzione, arrivando negli ultimi mesi ad essere sempre più frequenti. Ripercorrendo velocemente le varie e recenti polemiche possiamo ricordare la questione migranti a Claviere innescata da Salvini ad ottobre, seguita poi dalla crisi (europea) intorno alla nave Aquarius quando Macron disse di «non cedere all’emozione e alla politica del peggio» cui seguì una richiesta di scuse da parte di Salvini e la convocazione dell’ambasciatore francese alla Farnesina in segno di protesta. Di lì a qualche giorno Macron ribatté parlando di un pericolo per l’Europa dovuto alla «lebbra nazionalista». Vi sono poi i due scottanti dossier sulla TAV, su cui non mi dilungo, e quello della Libia in cui Parigi sostiene Haftar mentre Roma parteggia per Sarraj. Arriviamo così agli eventi delle ultime settimane: l’accusa dei Cinque Stelle ai francesi di provocare i fenomeni migratori attraverso il neocolonialismo e il franco Cfa, che comportò la convocazione il 21 gennaio dell’ambasciatore italiano a Parigi al ministero degli esteri francese, infine la polemica sui gilet gialli.

I gilet gialli sono stati la “goccia che ha fatto traboccare il vaso” ed è bene chiarire il perché. Abbiamo già visto che in questi mesi è montata, a mio avviso in maniera premeditata dal governo italiano, una tensione crescente tra i due paesi. Agli episodi precedentemente citati è bene aggiungere il messaggio di sostegno postato da Di Maio il 7 gennaio in cui invitava i gilet gialli a non mollare. La goccia, però, è stata l’incontro del 5 febbraio nella provincia parigina tra Di Battista e Di Maio con alcuni esponenti dei gilet guidati da Christophe Chalençon, ultimo dei tentativi pentestellati di trovare un’intesa con i gilets jaunes per le europee di maggio.

A questo punto qualcuno potrebbe domandare: che c’è di male? Di Maio è anche il capo politico di un movimento quindi è libero di incontrare gli esponenti di un altro movimento.

Qui sta l’errore e qui sta la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Di Maio non è solo il capo politico di un movimento, ma è anche ministro del lavoro e vicepremier: è una figura istituzionale. I gilet gialli, invece, sono un movimento dalle molteplici anime non istituzionalizzato (per saperne di più qui trovate uno nostro articolo). La differenza con un incontro tra Salvini e la Le Pen, ad esempio, sta nel fatto che quest’ultima è a capo di un partito, quindi è una figura istituzionale, e non esprime rivendicazioni golpiste. Al di là delle rivendicazioni dei gilets jaunes,infatti, vi è una frangia violenta e sovversiva che mette in discussione l’assetto democratico del paese ed uno dei punti di riferimento di questa è proprio Chalençon.

Fabbro di 52 anni, contatti con partiti di destra, Chalençon è quel leader che ha parlato dell’inevitabilità e della necessità di una guerra civile invocando l’intervento dei militari per deporre Macron ed instaurare un governo militare di transizione, guidato dal generale Villiers (licenziato da Macron nel 2017), che restituisca il potere al popolo. Una simpatia che dovrebbe risultare sgradita anche agli elettori M5s visti i contenuti delle dichiarazioni del leader dei gilets jaunes.

Di Maio e Di Battista hanno quindi dato, con la loro visita, legittimità ad un leader dalle tendenze golpiste passando per ben due volte dalle offese rivolte a Emmanuel Macron alle offese alla Francia come paese, prima con le accuse intorno al franco Cfa, poi con il dialogo con  Chalençon.

Penso che sia abbastanza lampante la matrice della crisi e la gravità delle azioni di Di Maio e Di Battista che, peraltro, non sembrano intenzionati a fare marcia indietro, pronti a ricevere Chalençon a Roma alla fine del mese. Se la visita dei leader pentastellati a Parigi è nata, formalmente, per la possibilità di fornire una base online sul modello della piattaforma Rousseau ai gilet gialli e per trovare un alleato in vista delle europee, informalmente essa è frutto della volontà di una forza antisistema ed antieuropeista di rompere l’assetto esistente generando una crisi di cui forse neanche gli autori si rendono pienamente conto e le di cui gravide conseguenze saranno difficilmente sanabili nel breve e medio periodo. Tutto a danno della credibilità italiana nel consesso internazionale.

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