La collocazione nello scacchiere internazionale è un aspetto dei più rilevanti nella politica estera di un paese perché garantisce una posizione consolidata attraverso cui avanzare richieste, promuovere iniziative, stimolare l’industria ed il commercio, risolvere crisi.
La politica estera dell’attuale governo italiano è qualcosa di poco definito e lo era già al momento del suo insediamento. C’è uno spostamento notevole verso l’Europa dell’Est e la Russia di Putin, con qualche simpatia per Donald Trump ed in generale uno scetticismo verso l’Europa ed il multilateralismo. In tal senso, infatti, vanno lette la chiusura dei porti e la messa in discussione di importanti missioni di peacekeeping come quelle in Libano o in Kosovo.
Al di là di questi spunti la politica estera italiana rimane una politica scarsamente definita in cui a prevalere è il non fare. Un esempio possono essere, per l’appunto, le varie crisi europee nate con la chiusura dei porti. In questo caso il governo gialloverde avrebbe potuto sfruttare la propria posizione geostrategica e le numerose operazioni di salvataggio ed accoglienza per attuare una politica di linkage – legare i progressi nei rapporti bipolari in un determinato ambito al comportamento dell’interlocutore in un altro ambito – funzionale, se non ad una riforma degli accordi di Dublino, perlomeno ad ottenere una gestione più comunitaria ed un rafforzamento dell’operazione Sophia che, di fatto, riconosce all’Italia la centralità sul Mediterraneo affidandole la guida della missione. Ciò avrebbe permesso alla penisola di acquisire un certo peso ed una buona dose di affidabilità come attore internazionale, confermando l’operato dei governi precedenti in materia, ponendosi come attore fondamentale nel Mediterraneo e nella gestione dei flussi migratori – anche se in quest’ultimo caso l’appoggio dato anche dai governi precedenti al leader libico Sarraj si è rivelato un boomerang. Non solo, ciò avrebbe incentivato la creazione di una gestione dei confini europei in maniera comunitaria potendo divenire una base di partenza per la creazione di una difesa e di una polizia europea integrata. Ma ciò non pare interessare al governo, il quale non si è dimostrato interessato alla creazione dell’esercito comune né a partecipare allo sviluppo dello SCAF, Sistema di Combattimento Aereo Futuro, da cui nascerà un nuovo caccia di quinta generazione destinato a sostituire l’Eurofighter-Typhoon. Questo atteggiamento dimostra una notevole miopia in uno dei rami fondamentali della difesa il quale si interseca con lo sviluppo economico e le relazioni internazionali. Difatti le commesse per lo sviluppo di sistemi d’arma di nuova generazione, al giorno d’oggi necessariamente in partnership per i costi elevati e la complessità dei progetti, comportano un aumento dell’occupazione, un incremento nei guadagni del paese produttore e un certo soft power declinato sia nella dimensione politico-economica che caratterizza questi progetti, sia nell’ammodernamento dell’esercito che diviene così un’arma di persuasione e di forza aggregata nelle trattative internazionali. Avere, quindi, una buona politica estera significa anche avere una buona politica di difesa, buone relazioni internazionali e notevoli guadagni politici ed economici. In tal senso, la crisi tra Francia ed Italia mette a rischio l’accordo per l’acquisto dei cantieri francesi Stx da parte di Fincantieri, dalle ovvie implicazioni economiche.
Il governo italiano non sembra però capire questi fondamentali delle relazioni internazionali, tant’è che è sempre più isolato in Europa. L’esempio più lampante è la mancata presa di posizione sulla crisi venezuelana che ha fatto sì che l’Unione Europea non potesse condannare in maniera unanime Maduro. Se in Venezuela dovesse trionfare Guaidò avremo perso un ascendente notevole, vista la numerosa comunità di origine italiana, in un paese dalle ricche concessioni petrolifere.
Sintomatico sia dell’isolamento sia della debolezza italiana è stata la conferenza sulla Libia svoltasi a Palermo a novembre, conclusasi con un nulla di fatto e già dimenticata mentre il leader sostenuto da Roma, Sarraj, è sempre più in difficoltà. Con la crisi tra Parigi e Roma e la posizione di forza goduta dalla Francia in Libia appare chiaro che Macron ha nel suo arco delle potenti frecce da usare se lo scontro non dovesse rientrare. Rimanendo nell’area MENA (Middle East and North Africa), inoltre, notiamo una notevole confusione riguardo alla politica estera da portare avanti: in Afghanistan viene annunciato il ritiro delle truppe, nel momento in cui è ancor più necessario che queste rimangano per poter partecipare a possibili negoziati da una posizione di forza, irritando gli alleati Nato; sul Libano alcuni esponenti di governo si sono detti contrari alla permanenza della missione italiana, che di fatto rappresenta l’elemento di contrapposizione in funzione della pace in quella che è una vera e propria polveriera: ciò, in termini di politica internazionale, significa abdicare ad un certo prestigio e ad una certa rilevanza; c’è poi il dossier iraniano: dopo le sanzioni trumpiane Berlino, Parigi e Londra hanno allestito una struttura per consentire all’export iraniano di funzionare. Roma non ha ancora deciso se entrare o no.
La collocazione italiana è quindi traballante e la crisi con la Francia aggrava questa situazione. Oltre alla cessione dei cantieri navali Stx, infatti, vi sono numerosi altri dossier con Parigi che se non andassero in porto indebolirebbero ulteriormente la posizione italiana. Air France, ad esempio, si è già sfilata dal salvataggio di Alitalia – quando, per l’appunto, una buona politica estera comporta anche una buoni risultati economici.
In questo contesto Salvini non può certo sperare nell’estradizione dei terroristi italiani in Francia, i quali rappresentano un’arma in una strategia di premi e punizioni per disciplinare il governo italiano. Un’arma che, in verità, può tornare utile anche al governo gialloverde: là dove non ci sarà estradizione e verranno meno gli accordi siglati con la Francia, Roma potrà sempre scaricare la colpa sul governo francese e l’Europa, in una prassi ormai consolidata rischiando, così, di non far rientrare la crisi. Ciò che realmente può salvare l’Italia e il continente europeo è un’Unione ancora più forte e federale, capace di esprimere una politica estera di rilievo.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.