Trump lo ha detto esplicitamente con uno dei suoi consueti tweet l’8 febbraio: è convinto che la Corea del Nord possa diventare una grande economia. E il modello da seguire lo suggerisce sempre lui, con la scelta di Hanoi, capitale del Vietnam, come luogo per il secondo summit, che si svolge oggi e domani, tra il presidente degli Stati Uniti ed il leader della Nord Corea Kim Jong-un.

La scelta del luogo dove far svolgere un summit non è mai casuale: ha un significato implicito nel linguaggio della diplomazia. Il Vietnam, contro cui gli Stati Uniti hanno combattuto una lunga guerra tra gli anni Sessanta e Settanta, è oggi una delle più fiorenti economie al mondo, nonostante il partito comunista mantenga saldo il controllo sulla società, ed un partner strategico per Washington in Asia: non è un caso infatti la visita di quattro giorni nel marzo 2018 della portaerei nucleare USS Carl Vinson nel porto di Da Nang. Risultato, tutto questo, delle riforme intraprese a partire dal 1986.

Il sistema internazionale tende a rendere i vari attori partecipi del mantenimento dell’ordine: in questo senso, un partner strategico può essere un vecchio nemico, o un paese dichiaratamente comunista ma che accetta di seguire le regole internazionali, divenendo così un affidabile alleato. Ciò è parte del risultato che Nixon ottenne quando normalizzò le relazioni con la Cina nel 1972, in funzione antisovietica, nonostante Pechino rappresenti oggi una minaccia per Washington. La Cina fu dunque il primo modello: uno Stato comunista nella forma, con un controllo saldo del partito all’interno del paese, ma parte del sistema economico globale, con elementi di capitalismo al suo interno, anche se le aperture economiche furono successive al 1972.

Il messaggio dell’amministrazione americana a Kim Jong–un sta nell’indicare una via d’uscita dall’isolamento internazionale lasciando, allo stesso tempo, immutate le strutture di potere, a patto che il paese venga denuclearizzato. È ciò che possiamo definire una politica di linkage: legare i progressi nei rapporti bipolari in un determinato ambito al comportamento dell’interlocutore in un altro ambito, vale a dire garantire alla Corea del Nord l’ingresso nell’economia globale e la fine dell’isolamento in cambio di un comportamento non più minaccioso.

La denuclearizzazione porterebbe vantaggi sia a Kim che a Trump. Il leader nord coreano potrebbe far crescere la propria economia, ripagando così i debiti contratti con la Cina e la Russia, potrebbe migliorare la situazione nelle campagne, sviluppare maggiormente la propria tecnologia, anche grazie all’ingresso di prodotti americani nel suo mercato. Per Trump si tratterebbe di una vittoria diplomatica di non poco conto che potrebbe sfruttare a fini elettorali, nonostante le manovre dei servizi e della diplomazia americana in tal senso siano iniziate nel 2009, durante la presidenza Obama. Inoltre permetterebbe all’attuale presidente degli Stati Uniti di risolvere una fonte di instabilità in Asia nella speranza che anche la Corea del Nord diventi un alleato, sottraendolo così alla Cina.

Fare delle previsioni sul futuro non è comunque utile, anche perché una normalizzazione coreana non è così scontata. La Cina, che comunque auspica un alleato più disciplinato, potrebbe non gradire questa nuova intesa con Washington e ancora da chiarire sono le posizioni della Corea del Sud che, nonostante al momento desideri una soluzione, non è detto che possa essere soddisfatta di determinati risultati. Una normalizzazione, in questo senso, non porterà, con molta probabilità, ad una riunificazione della penisola come già vi abbiamo spiegato in questo articolo. Il problema più rilevante, comunque, sembra essere la struttura di potere vietnamita. Difatti in Corea del Nord il partito ed il paese sono controllati dalla dinastia Kim, anche grazie ad un forte culto della personalità dell’attuale leader e dei leader passati. In Vietnam il partito ed il paese non sono controllati da una dinastia, ma dalla nomenklatura di partito che sceglie i proprio leader attraverso una competizione interna. Kim Jong-un potrebbe dunque nutrire dei dubbi ragionevoli nei confronti di una soluzione che di fatto non garantisce a lui e alla sua famiglia il possesso del potere. Una soluzione, comunque, potrebbe essere la creazione di un nuovo modello che intersecherebbe le caratteristiche vietnamite garantendo, nei fatti, una posizione di potere, anche formale, ai Kim.

La Corea del Nord non è l’unico paese avvolto dai dilemmi di una (possibile, in questo caso) transizione: la República de Cuba ha accettato una parziale apertura al mercato con il referendum di domenica scorsa, di fatto confermando alcune riforme iniziate nel 2008, pur lasciando le strutture di potere immutate così come la posizione della famiglia Castro. L’accelerazione di questo processo è in parte frutto delle aperture promosse dall’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama. La normalizzazione dei rapporti con l’Avana avvenne con caratteristiche diplomatiche simili a quelle vietnamite: è quindi lampante come Trump, che sta affossando i risultati raggiunti dal predecessore con Cuba, sfrutti la politica estera per fini elettorali. Chissà, comunque, che non arrivi anche da Cuba parte della soluzione al dilemma di Kim, tassello anche questo della troppo spesso sottovalutata eredità Obama.

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