Con militarizzazione della polizia si intende l’acquisizione progressiva di status, modus operandi, ethos, armi ed equipaggiamenti tipici dell’esercito da parte della polizia. In tal senso, si produce un mutamento nelle relazioni di potere in favore dell’esercito in quanto ente che può garantire alla polizia il possesso dei nuovi mezzi e delle tecniche operative di cui necessita. Nel dibattito accademico si privilegia la dicitura «militarizzazione della polizia» e non «polizia militarizzata» o «polizia paramilitare» in quanto si vuole sottolineare il processo in atto, esclusi casi eccezionali, che non sempre coinvolge la totalità dei dipartimenti o delle funzioni di polizia; nel caso del secondo termine, inoltre, «paramilitare» viene riservato a quelle polizie che per nascita sono un ibrido con l’esercito e che spesso assolvono anche funzioni militari, come nel caso dei Carabinieri o della Gendarmerie francese.[1]

La militarizzazione comporta un mutamento nelle tattiche, nelle strategie e nel contatto con i manifestanti ed i cittadini in generale, implicando così anche un cambiamento nella concezione stessa della polizia. Difatti quest’ultima non interviene più per ristabilire l’ordine, ma per ottenere una vittoria definitiva identificando così nel gruppo o nella persona che ha di fronte a sé un nemico, cioè un soggetto al di fuori del quadro statuale. In tal senso si parla di acquisizione della forza massimale, tipica dell’esercito, da parte della polizia a discapito di quella minimale. La polizia diminuisce così la sua funzione preventiva, di creazione e/o mantenimento dell’ambiente al cui interno la legge può essere applicata in favore dell’efficienza operativa rivolta al «colpire e terrorizzare».

Il ricorso alla polizia antisommossa, inoltre, non è sempre necessario né implica necessariamente il ricorso alla forza. Secondo molti studi riguardo la polizia inglese, svedese e svizzera l’interazione tra polizia e manifestanti, la delegazione di responsabilità gestionali ai servizi d’ordine interni al corteo, e talvolta la non visibilità della polizia stessa sono fattori che riducono notevolmente la creazione di quelle aspettative che possono portare ad un’escalation della violenza. Escalation che è spesso proporzionale: ad un aumento della violenza potenziale della polizia segue quella dei manifestanti, e viceversa.

Nonostante la militarizzazione sia un fenomeno ampio e di lungo periodo, in questo articolo farò riferimento, per scelta metodologica, principalmente al dibattito intorno alla Compagnie Républicaine de Sécurité (CRS, la polizia antisommossa francese) con punto di riferimento le manifestazioni dei gilets jaunes a Parigi. Tale scelta è parzialmente giustificata dalla constatazione di un ampio dibattito in Francia sulla polizia antisommossa, dibattito che non nasce con i gilets jaunes ma maggiormente presente sulla scena pubblica proprio per la presenza di questo movimento.

Storicamente, la dottrina francese sull’ordine pubblico è stata fondata sulla messa a distanza della folla, sulla prevenzione del contatto fisico con i manifestanti e sul ritardo al ricorso ad azioni coercitive, basandosi sull’idea di «mostrare la forza [potenziale] per non avere da esercitarla». Questo approccio si è tradotto in molteplici soluzioni, tra cui anche il ricorso ad un repertorio d’azione finalizzato, almeno in teoria, a causare meno danni fisici possibili con il ricorso ad armi di «messa a distanza» (ad esempio gli idranti) e di stordimento (in particolare i gas lacrimogeni). Questo approccio sembra essere stato abbandonato all’inizio degli anni 2000, comportando una trasformazione degli armamenti a disposizione della polizia i cui effetti sono visibili nel decesso del manifestante Remi Fraisse di 21 anni, colpito da una granata lacrimogena a Lisle-sur-Taine nel 2015, nel notevole aumento di feriti anche con danni permanenti, negli scontri seguiti manifestazioni sulla Loi Travail del 2016 ed ancora nei movimenti studenteschi del 2018.

Nonostante gli esempi recenti, la nascita e lo sviluppo della militarizzazione della polizia è un fenomeno di lungo periodo, le cui radici possono essere rintracciate già negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, con un’accentuazione del fenomeno negli anni Novanta quando la polizia si trovò in uno stato di incapacità cronica riguardo la gestione delle problematicità urbane, specialmente se legate alla realtà delle banlieue. A tale incapacità seguì un incremento negli effettivi e delle unità di CRS, cui venne assegnato anche il pattugliamento urbano in assetto antisommossa.

Un’evoluzione ulteriore riguarda lo sviluppo delle armi di forza intermedia (AFI), sulle quali ruota principalmente il dibattito sorto in relazione ai gilet gialli, il quale denota un certo grado di militarizzazione. Le armi non letali, come le AFI,  sono state introdotte negli anni ’90 in seguito allo sviluppo militare di sistemi d’arma che fossero, appunto, non letali e quindi impiegabili nelle operazioni di interposizione e di peace-keeping, anche se i proiettili di gomma già erano stati utilizzati dall’esercito britannico nell’Irlanda del Nord negli anni ’70. Le armi non letali, quindi, si svilupparono in un contesto militare e solo successivamente vennero fornite alle forze di polizia, aspetto che, a sua volta, denota un livello di militarizzazione precedente agli anni Novanta. Essendo armi di provenienza militare, inoltre, il loro impiego implica il ricorso a strategie e tattiche tipiche dell’esercito, quindi un mutamento nella concezione di ordine pubblico e nella sua gestione che risponde ai caratteri della militarizzazione.

Il dibattito intorno alle manifestazioni dei gilets jaunes si concentra principalmente su due tipologie d’arma, soffermandosi talvolta su una terza. Queste sono:

  • Lanceurs de balle de défense, introdotte progressivamente dagli anni 2000, cui spesso ci si riferisce appellando il proiettile (flashball) ricoperto di gomma dura al fine di non essere letale e il meno possibile dannoso, anche se di fatto, specialmente se sparato alla testa o in prossimità degli organi vitali, può comportare il decesso, il coma o la perdita dell’occhio come accaduto ad uno dei leader dei gilet gialli, Jérôme Rodrigues.
  • Granate lacrimogene istantanee (GLI F4): essendo granate hanno un dosaggio di esplosivo (TNT) ritenuto non elevato in modo da non costituire un grave pericolo, anche se molti gilet gialli hanno accusato gravi danni agli arti in seguito alle esplosioni. Le granate, al momento della detonazione, rilasciano il gas lacrimogeno e sono giudicate dal ministero degli interni come «necessarie per il mantenimento della distanza». Hanno un triplice effetto che è sonoro, lacrimogeno e di esplosione, prodotto dal lampo e dall’onda d’urto.
  • Grenades de désencerlement o «dispositivi di dispersione manuale» (DMP): sono la tipologia di granate che provoca la detonazione più potente (160 decibel) scagliando, in un raggio di 30 metri, diciotto piccoli pezzi di gomma da 10 grammi ciascuno. Il ricorso a questa tipologia d’arma avviene con una bassa frequenza ed il dibattito, infatti, vi si è soffermato poco.

La Francia, comunque, è l’unico paese europeo a disporre di granate “non letali ad uso della polizia.

Secondo l’ultimo bilancio reso disponibile a gennaio il numero di feriti totali era di 1,500 tra le forze dell’ordine (poliziotti, gendarmi e vigili del fuoco) e di 2,200 tra i manifestanti tra cui 154 manifestanti feriti gravemente, di cui 28 con danni permanenti: 5 hanno subito l’amputazione parziale o totale della mano per l’esplosione delle GLI F4, 22 hanno perso la vista da un occhio per il lancio delle flashball,  1 persona ha perso l’udito in maniera definitiva per l’esplosione di una granata. A seguito di questi dati il Parlamento europeo ha condannato, il 14 febbraio, il ricorso ad «interventi violenti e sproporzionati da parte delle autorità pubbliche», criticando nella prima bozza anche il ricorso alle granate e alle flashball poi eliminato per l’opposizione di alcuni partiti di destra.

[1] Jean-Paul Brodeur, Force policière et force militaire, in Frédéric Lemieux, Benoît Dupont (a cura di), La militarisation des appareils policiers, Saint-Nicolas, La Presses de l’Université Laval, 2005,pp. 53-54.

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