L’origine ama nascondersi” 

Eraclito.

Wakefield e Il velo nero del pastore (Milano, R.C.S libri, 1994), di Nathaniel Hawthorne (1804–1864) rappresentano una delle massime espressioni della sua produzione letteraria, al di là del suo più famoso scritto: La lettera scarlatta. Nella loro fulgente e vivida brevità, quasi come fossero delle parabole, possiedono, in realtà, una tale vastità e densità di temi e di implicazioni che, non a caso, da essi ne sono scaturite numerose e complesse chiavi di lettura rendendo l’autore uno dei massimi esponenti del Dark romanticism americano.

La lettura dei due racconti, molto dinamica e avvincente, suscita un senso di arcano e di enigmatico, quasi di inspiegabile, che porta, inevitabilmente, ad interrogarsi sul precipitarsi delle vicende narrate e sul lato oscuro a cui le storie alludono, al punto tale che si possono effettivamente considerare come due racconti strettamente collegati tra di loro dal comune tratto fortemente speculativo. Volendo cogliere una prima comune generalizzazione Wakefield e Il velo nero del pastore possono essere definiti due racconti sulla solitudine dell’uomo nel momento in cui deve confrontarsi con le parti più oscure e nascoste di sé, dalle quali fugge celandosi agli altri e celandosi anche e soprattutto a sé stesso. Perché i protagonisti dei due racconti, il signor Wakefield e il pastore, reverendo Hooper, non si isolano fisicamente, non diventano degli eremiti, ma si autocostringono ad una solitudine esistenziale.

In Wakefield, la vicenda di cronaca, che da subito il narratore ci presenta, è la storia di un’assenza.  Si tratta della storia di un uomo, il quale, all’insaputa della moglie e senza spiegazione alcuna, intraprende una sorta d’esilio volontario per vent’anni. I dati essenziali del protagonista sono già riassunti all’inizio: non è infatti l’evento in sé al centro della narrazione, ma piuttosto la possibile riflessione sui motivi e le conseguenze che da tale evento scaturiscono, ossia la ricerca di un senso dinnanzi all’insolito, a ciò che si inscrive nell’ordine dell’insensato: “Ognuno di noi sa che non riuscirebbe a commettere una simile pazzia, ma sente che un altro potrebbe riuscirci. Il pensiero ha sempre una sua efficacia, e ogni incidente notevole ha la sua propria morale”. (pag. 6).

L’agire anomalo di Wakefield, che lo porta ad affittare una stanza nella strada accanto alla propria dimora e a mettersi ad osservare la sua casa e sua moglie, non va interpretato come una fuga, quanto piuttosto un riflettere su come si diventa estranei a ciò che sembra assolutamente nostro e scontato; quel divenire altro da sé è per Wakefield un passaggio obbligato per una presa di consapevolezza maggiore verso il suo stesso sé.

I suoi pensieri sono così incerti e vaganti ch’egli sente di essersi indotto a quel passo, se non incoscientemente, almeno senza saperne definire esattamente il perché. L’indeterminazione del suo piano e il convulso sforzo per tradurlo in atto sono ben significativi di uno spirito debole. Wakefield, tuttavia, vaglia le sue idee più minutamente che sia possibile. Una malsana vanità è in fondo a tutto ciò. L’abitudine, si parla qui di un uomo abitudinario, lo prende per mano e lo guida, inconsapevole affatto, alla sua porta e là, proprio al momento critico, egli si risveglia allo scalpiccio del suo passo su un gradino. Wakefield! Dove vai tu dunque?”. (pag. 11).

Wakefield si scopre fuori dal suo contesto sociale di riferimento, in una condizione di sospensione e smarrimento che, se da un lato gli permette di svelare una parte di quelle emozioni che si celano all’interno di sé, dall’altro gli fa correre il rischio di cadere fuori dal sistema di reciprocità creato dalle abitudini, con il pericolo di scivolare nell’abisso degli esclusi. La rappresentazione della solitudine di Wakefield inizia progressivamente a configurarsi, non tanto come allontanamento dal sociale verso luoghi deserti, ma piuttosto come sintomo di una fragilità interna al nucleo sociale di riferimento del nostro protagonista.

Wakefield! Sei un pazzo! S’era tanto adattato alla singolarità della sua condizione che in rapporto agli altri suoi simili e alle faccende della vita non si sarebbe potuto dirlo del tutto in sé.

Aveva voluto, o piuttosto era giunto a separarsi dal mondo, a dimetter la sua situazione e i suoi diritti fra i vivi senza appartenere ancora ai morti. La vita dell’eremita non somiglia affatto alla sua. Viveva nel trambusto della città, come prima. Il destino di Wakefield era di conservare la sua parte di affetti umani e di interesse alla vita, e di aver perduto ogni influsso su di essi. (pag.17).

Ancor più foriero di simboli e di segni è “Il velo nero del pastore”. Una vicenda oscura e severa, in cui il pastore Hooper appare un giorno ai suoi fedeli portando di fronte alla sua faccia un velo nero che gli nasconde lo sguardo e che incute a tutto il suo gregge profonda soggezione se non un vero e proprio sentimento di paura. Il pastore non toglierà mai quel velo, in nessuna circostanza e di fronte a nessuno, neanche in punto di morte.

Hawthorne non svela al lettore che cosa ha portato Hooper a indossare il velo: dal testo si evince soltanto che il velo è una sorta di espiazione per un senso di colpa irrisolto, la cui natura è fonte di innumerevoli possibili illazioni.

Il velo nero sarebbe quindi un simbolo del nascondersi agli altri e a sé stessi che conduce al vivere come il pastore Hooper nell’estrema solitudine. Questa condizione conduce alla chiusura di sé stessi per non svelarsi: per viltà, per paura di noi stessi, per il dolore che raggiungere un certo grado di consapevolezza può provocarci, ma, sovente, anche perché non siamo neanche capaci e neppure vogliamo arrivare fino in fondo a noi stessi. Il pastore Hooper, a suo modo, accollandosi l’onere e la conseguenza della propria autoconsapevolezza, lancia una sfida, punta il dito, contro la codardia e l’ipocrisia umana.

Il velo è dunque il simbolo della maschera di dolore celato che separa e vieta agli uomini di vedere chiaramente in sé stessi e di farsi vedere e conoscere dagli altri.

Il giorno in cui l’amico mostrerà l’interno del suo cuore all’amico, e l’innamorato alla sua diletta; il giorno in cui l’uomo non rifuggirà all’occhio del suo Creatore e non conserverà come un vergognoso segreto il suo peccato; allora chiamatemi un mostro per il simbolo sotto il quale ho voluto vivere e morire! Ma io mi guardo attorno e su ogni volto non vedo che un velo nero!”. (pag.43).

A cura di Cristopher Palavisini, che per L’Eclettico ha già scritto diversi articoli, tra cui Lettera al Padre di Kafka e Bartleby lo scrivano.

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