Uscirà a breve su Repubblica una collana curata da Alberto Angela intitolata Come eravamo. Il romanzo degli italiani. In occasione dell’uscita del primo volume, Angela ha rilasciato un’intervista a Repubblica cui è seguita una risposta, qualche giorno dopo, sulle colonne del Corriere della Sera, da parte di Ernesto Galli della Loggia.

Ciò che della Loggia rimprovera ad Angela è la pretesa di quest’ultimo di portare a termine una narrazione storiografica che, per la prima volta, parla anche degli aspetti comuni e della quotidianità delle persone, senza necessariamente sfociare in re, battaglie e trattati.

Della Loggia ha ragione: Alberto Angela non è il primo a fare questo tipo di storia. È, in effetti, da molto tempo che la storiografia non è più una narrazione evenemenziale (cioè appiattita sull’evento come sostiene Angela), ma composta anche da storia culturale e delle mentalità la quale analizza i processi di lungo periodo andando ad indagare anche le realtà quotidiane, che è ciò che chiamiamo microstoria.

A monte di questa rivoluzione storiografica, quella vera, non quella di Angela, stanno le Annales fondate nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre.

Non credo sia necessario consigliare Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg, classico della microstoria incentrato su di un mugnaio del ’500, o Les rois thaumaturges di Marc Bloch, primo esempio di quella storiografia delle Annales che cambiò profondamente (il libro è del 1924) la storiografia indirizzandola verso quella metodologia di cui parla Angela. Sono convinto che, in quanto uomo di divulgazione e di cultura, conosca benissimo questi titoli. Viene, quindi, da chiedersi perché i libri di storia, secondo Angela, siano fermi ad un metodo di descrizione e d’indagine vecchio di almeno un secolo.

In verità è l’immagine della storia che Angela propone ad essere stantia ed errata.

Premetto che non ho letto l’intera collana, di cui comunque è appena uscito il primo volume. Mi baso quindi sull’intervista rilasciata a Repubblica e che potete trovare qui.

La collana contiene già nel titolo (Come eravamo. Il romanzo degli italiani) diverse indicazioni sulle scelte “ideologiche” che stanno alla base dei vari volumi. Innanzitutto l’interpretazione della storia come romanzo, che rimanda ad una connotazione tragica e teatrale che non è certamente propria della storia in sé per sé, in quanto non vi è un canovaccio o una trama che gli attori seguono, né dei ruoli stabiliti. Né la storia è bella o brutta come un romanzo, prospettiva che,a mio avviso, è svilente della vita passata. Al di là di questa polemica forse un po’ forzata vi è la concezione di una storia lineare, di evoluzione progressiva a partire da uno stato per mostrare la grandezza di un popolo. La storia ha dimostrato che il concetto stesso di popolo è aleatorio ed è un’invenzione recente: nasce con gli Stati-Nazione. Sostenere come fa Angela che «Leonardo è un genio italiano» e che «l’impero romano è l’impero italiano» sono affermazioni che, oltre che a nascondere una certa simpatia per un certo nazional-patriottismo in voga, vedono nella storia un processo cumulativo e progressivo di un solo popolo, quello italiano, che già in epoca etrusca o romana aveva concezione di essere tale. Ma il concetto di Italia come lo intendiamo oggi nasce nell’Ottocento e si realizza con l’Unità, periodo in cui la narrazione di Angela termina. «Fatta l’Italia dobbiamo fare gli italiani» sentenziò Massimo D’Azeglio nel 1861.

Un cittadino romano (e già la parola cittadino è problematica se applicata all’antica Roma, perché rimanda alla concezione di citoyen della Rivoluzione Francese) non aveva coscienza di essere italiano per il semplice fatto che non era italiano perché l’Italia non esisteva.

Ma, si potrebbe controbattere, l’Italia nasce dalle ceneri di questo Impero, ceneri che corrono lungo il Medioevo, l’Età Moderna…un po’ forzato, no?

La storia, sosteneva Bloch, è fatta di décalages (sfasature) che rendono il tempo non uniforme, intrecciato con un tempo delle mentalità e un tempo delle realtà materiali o concrete che si forma anche in conseguenza del primo; un tempo che vive delle «vibrazioni» sul lungo periodo di fenomeni del passato che oggi si riverberano nel nostro presente modellandolo. Il concetto di Italia nasce quindi sulla base di un ripensamento ottocentesco di un passato mitizzato di grandezza, quello dell’epoca romana, che a sua volta è frutto di quella concezione di modernità che vede(va) in ciò che è precedente al Rinascimento un periodo di decadenza. Il Romanzo degli Italiani dovrebbe quindi essere il racconto di persone che hanno vissuto nella penisola che non necessariamente sono gli antenati di chi oggi vi vive e che si ritiene, a differenza di questi presunti antenati, italiano.

Nella narrazione di Angela vi è quindi una concezione della storia che assegna al tempo e alla ricerca una funzione strumentale sottomessa al raggiungimento di un obiettivo nazionalistico, il che in ultima analisi riduce la ricerca ad essere serva di un potere o di un’idea, rendendola dipendente e quindi non più veritiera.

Nella chiusa dell’intervista «io faccio vedere come è avvenuto davvero» è espressa la pretesa ultima di Angela: essere l’unico a mostrare la verità, con buona pace di tutti gli studiosi e gli specialisti del settore che, vien da dire inutilmente in un paese che non vuol sentire la loro voce, spendono anni in ricerca, in quella ricerca microstorica di cui si vanta Angela.

Talvolta sarebbe bene adottare una posizione più umile, consona al proprio ruolo specialmente se questo coincide con la figura del divulgatore. Angela è, difatti, un ottimo divulgatore scientifico (e un paleontologo), non uno storico, e forse dovrebbe lasciare il mestiere di storico agli storici senza arrogarsi meriti che non possiede e che, per di più, non coincidono con la realtà della sua ultima pubblicazione la quale, inoltre, si fonda su una concezione di moto storico dei «corsi e ricorsi» (in questo caso addirittura spiegati attraverso la «mollezza o la «forza» di chi vive nei suddetti periodi, affermazione gravida di possibili interpretazioni) che è, anch’essa, ormai superata da decenni.

A ben vedere non è la storiografia a dover aggiornare le sue competenze.

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