Capita, talvolta, di avvertire pienamente i caratteri essenziali del proprio tempo, là dove quotidianamente permane una consapevolezza latente, mai del tutto sopita ma anche mai del tutto consapevole, della propria situazione. Una consapevolezza che arriva spesso dai luoghi. Spazi in cui regna l’asfalto impersonale sempre uguale a sé  stesso, indifferente. Quei luoghi che non possono non essere stati concepiti e costruiti che nel tempo recente. Quei luoghi che provocano un senso di squallore, freddezza, distanza, ossessività, riproducibilità e, soprattutto, il niente. Perché sono quasi se non dei non luoghi. Luoghi che percepiamo come indifferenti alla nostra presenza, vuoti ma allo stesso tempo inevitabilmente stracolmi. Sono le nuove periferie, le nuove città, i nuovi lungo fiume così grigi, decadenti, privi di calore e di vita, costruiti con l’unico scopo di espletare una funzione senza tener di conto la sensibilità dell’occhio umano.

In questi luoghi si avverte un vuoto dell’esistenza. Non mi riferisco al nulla –e quindi al vuoto- dell’esistenza nel tempo. Il vuoto dell’esistenza cui non mi riferisco è quello dell’incedere storico verso il futuro: il divenire che, giungendo, riempie con le decisioni e le azioni umane l’indefinitezza che caratterizza il futuro. Il vuoto dei luoghi di cui parlo riguarda invece sia la condizione umana che la situazione.

Per quel che riguarda la condizione umana si può dire che l’uomo è “pieno” nel momento in cui è, mentre nella sua determinazione futura “è” vuoto, nulla, perché essa deve ancora ad – venire. Ciò crea angoscia, ansia, disperazione ed agire senza speranza. In questi luoghi si esprime, brutalmente, quello che l’uomo prova riguardo la propria condizione. Ma, allo stesso tempo, vi si riscontra la malafede, e così arriviamo al vuoto della situazione.

Dio è morto, sosteneva Nietzsche riferendosi alla fine dei punti di riferimento dell’uomo moderno. In verità è nella contemporaneità stretta, con la fine delle ideologie, con il ritorno a fasulle identità, che si palesa la morte di Dio. O meglio, se prima vi erano dei pretesti ideologici cui ancorarsi per sopperire all’assurdo, questi sono adesso venuti meno.

La situazione odierna è caratterizzata dall’assenza di punti di riferimento e di direzioni. Solamente le modalità con cui la professione agisce sulla vita definisce l’uomo e dona garanzia dell’essere cittadino.

L’incertezza dell’esistenza è causata e si rispecchia nella tendenza al vivere con ansia il futuro perché esso è sinonimo della parola fine anziché ad – venire. Fine della forza, della bellezza, del divertimento, della giovinezza e delle possibilità di far carriera o di dirigere in un certo modo la propria vita – che son tutte apparenze, paure fittizie. Sempre più, infatti, in film e telefilm vediamo personaggi con caratteristiche adolescenziali e comiche, pur essendo i protagonisti soggetti adulti; sempre più film sono nuove edizioni di vecchi film; sempre più film diventano saghe di fronte alla paura della fine che un tempo caratterizzava la dimensione del racconto.

Tutto ciò è un cercare di fermare il tempo e di prenderne così possesso. Ma l’uomo non possiede né dispone del tempo: il tempo è, infatti, il carattere costitutivo dell’esistenza, il luogo in cui l’uomo è situato. L’uomo è nel tempo ma non può farne ciò che vuole: egli non possiede niente e non dispone di niente, solo sa che prima o poi il tempo finirà per lui ma non per l’umanità. L’essere per la morte atterrisce perché l’uomo deve progettare la propria vita sapendo che la temporalità è una temporalità finita, di cui non si comprende il senso, dando così luogo alla condizione assurda.

Le dimensioni della chiacchiera e dell’equivoco, con cui si esorcizza la paura dell’assurdo e si dà luogo alla malafede, trovano nelle immagini nuove forme di esistenza. La fotografia ossessiva dona la parvenza di essere riusciti a prendersi gioco del tempo, fermandolo in un’immagine. Ma c’è anche la necessità di «eventi» che esorcizzino la paura, che facciano vedere che si è qui, che si è vivi, si è felici e divertiti. In verità si è sempre più soli perché sempre più concentrati sulla propria dimensione: è la condizione necessaria per assicurarsi la felicità in uno stato paranoico ed ansiogeno. Il lavoro, anche quando mascherato dalla flessibilità, gli eventi, lo stato catatonico che caratterizza la condizione attuale, portano poi al prevalere dell’emozione – che non necessita di un tempo lungo – a discapito del sentimento. Non amore di vivere, ma emozione del vivere.

Ecco, i luoghi di cui parlo esprimono questo tipo di vuoto dell’esistenza, ne sono un sintomo, un risultato. Creano disagio alla nostra vista perché mettono di fronte agli occhi la situazione per come essa è. Sono paradossali perché sia in malafede che in buona fede. Ricordano la decadenza, forse ne sono un sinonimo. Poiché la decadenza non è che essenza all’ennesima potenza, in quanto manifestazione estrema e sublime di ciò che non è più ma che è ora e non vorrebbe essere. Essa è, al medesimo tempo: ciò che è stato, ciò che è, ciò che vorrebbe essere. Ma la decadenza è anche negazione in quanto crea una sovrastruttura per nascondere la vera realtà fenomenica, come una vecchia signora che fa di tutto pur di non apparire per ciò che è. E proprio qui si instilla un paradosso, il paradosso della decadenza, in quanto ciò che appare come sovrastruttura diviene ad essere manifestazione stessa di un’essenza, quella del voler ma non poter essere. Ciò crea meraviglia portandomi a specchiarmi nell’altro, o nell’inanimato, in un attimo di essenza eterna svelante la finitezza, riscoprendo così la mia essenza. Decadenza: carattere ambiguo dell’esistenza che la rende ancor di più essenza perché svelata parzialmente per ciò che realmente è: una lichtung.

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