Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del secondo decennio dei 2000, parlare di indie significava fare riferimento ad una scena fuori dalle logiche di mercato, attenta ai contenuti e composta principalmente da gruppi rock nati e sviluppatisi in contesti di nicchia o comunque underground; basti pensare agli Afterhours, agli Zen Circus, ai Verdena, al Teatro degli Orrori o ai Tre Allegri Ragazzi Morti.
Ad oggi comprendere cosa significhi effettivamente il termine sembra piuttosto complicato: il paradigma infatti sembra essersi rovesciato in seguito all’affermarsi di altre band, ma soprattutto cantautori, dalle sonorità sicuramente più marcatamente pop o elettroniche come i The Giornalisti, Calcutta, Gazzelle, Lo Stato Sociale, Galeffi e i Canova. Questi artisti hanno rappresentato una novità rispetto al passato anche a causa dei numeri senza precedenti registrati da alcuni di loro in termini di vendite discografiche e di presenze durante i tour. L’indie è diventato così un vero e proprio fenomeno musicale che sembra avere abbandonato il proprio collocamento all’interno dell’underground ed essersi spostato altrove rispetto alle proprie origini.
Molto probabilmente comunque l’ascesa dell’indie si intreccia con la rivoluzione digitale e in particolare con l’avvento dei social network, per non parlare della più generale crisi del mercato discografico: ecco che questo mondo è divenuto qualcosa da analizzare andando anche oltre alla musica ed esplorando i caratteri ed i meccanismi che ne hanno determinato un consenso così forte, soprattutto tra i più giovani. Ciò sembra peraltro poter alimentare un dibattito, non ancora del tutto emerso tra i mass media e gli addetti ai lavori, riguardante il presunto abbassamento del livello qualitativo dell’attuale indie rispetto al precedente, richiamandosi anche all’eterno scontro tra chi sostiene che la musica sia anche cultura e chi ritiene che sia principalmente intrattenimento. Al di là del fatto che comunque quest’ultima possa svolgere entrambe le funzioni, sembra innegabile notare che le dinamiche e le logiche di mercato del pop, e più in generale del mainstream, si siano ampliate anche a mondi prima considerati al di fuori di esse.
Ma procediamo per ordine: un momento di discontinuità rispetto al passato fu il 2011, in occasione dell’uscita del primo disco de i Cani, intitolato “Il sorprendente album d’esordio de I Cani”, progetto musicale del romano Niccolò Contessa anticipato dal successo di due singoli caricati su soundcloud e suonato interamente con strumenti elettronici e con un arrangiamento minimale. Grande successo lo ottenne un anno dopo la band Lo Stato Sociale grazie all’album “Turisti della democrazia”, anch’esso caratterizzato da sonorità elettroniche e da un cantato poco convenzionale.
Ma il vero punto di svolta sembra essere stato sancito dall’exploit di Calcutta e del suo disco “Mainstream”, pubblicato nel 2015 da Bomba Dischi e autore di una vera e propria rivoluzione nel circuito indipendente italiano e non solo. L’anno successivo infatti il singolo “Oroscopo“, frutto della collaborazione con due produttori di hit pop come Takagi e Ketra, vinse il disco d’oro diventando un vero e proprio tormentone estivo: quest’ultimo tuttavia non fu solamente un successo estemporaneo ma simboleggiò anche l’avvio di un rapporto di scambio tra indie e mainstream, due mondi che solo pochi anni prima si immaginavano antitetici e privi di comunicazione tra loro.
Da questo momento in particolare molte piccole etichette hanno cercato di avere il loro “Calcutta” e si sono affermati numerosi altri cantanti sullo stile del ragazzo di Latina che ne hanno seguito le orme (Gazzelle e Galeffi su tutti).
L’indie è così passato dall’essere un posizionamento all’interno del mercato discografico a diventare un vero e proprio genere con caratteri specifici che si ripetono in molti brani di musicisti diversi tra loro, come se venisse seguito il principio di standardizzazione di adorniana memoria[1]. Individuare questi standard non sembra essere particolarmente complicato: innanzitutto è evidente il continuo utilizzo dei sinth e in generale di sonorità simili tra loro, spesso ispirate a quelle anni ’80; poi non si può fare a meno di notare l’utilizzo di una vocalità spesso sofferente o annoiata e di arrangiamenti semplici e talvolta minimali. Dal punto di vista dei testi il tema che si trova più volte è quello della relazione finita male insieme alla presenza, nei titoli ma non solo, di elementi di uso comune apparentemente privi di significato (polistirolo, vinavil, kiwi, paracetamolo). La funzione consolatoria rispetto ai problemi quotidiani, e in primis sentimentali, sembra quindi avere una prevalenza su tutte le altre; in questo modo chi ascolta trova conforto in sonorità e parole che sono esattamente quelle che si aspetta, disinteressandosi del fatto che ciò che ascolta è già stato ascoltato in precedenza.
Certo che, rispetto alle analisi fatte da Adorno e dalla Scuola di Francoforte sulla cultura di massa, oggi non si può più parlare di un pubblico statico dato che esso, attraverso le nuove tecnologie può, non solo scegliere se ascoltare o non ascoltare, ma giocare anche un ruolo maggiormente attivo: ad esempio, come ha fatto notare l’accademico Henry Jenkins, oggi grazie al progresso digitale il pubblico, il fruitore di musica in questo caso, ha assunto un’importanza che prima non aveva. Così facendo infatti produzioni amatoriali o a basso costo riescono spesso ad imporsi alle masse attraverso canali internet come youtube o attraverso i nuovi social network[2]. Molti degli artisti citati infatti si sono fatti spazio in questo modo, condividendo online la propria musica, elaborata senza grandi produzioni alle spalle.
Lo sviluppo della rete avrebbe pertanto garantito possibilità che prima non esistevano rendendo, almeno sulla carta, più aperto e variegato il mercato musicale. Ciò allo stesso tempo avrebbe reso più facile ed istantaneo il percorso verso il successo, riducendo l’importanza della gavetta e dell’esperienza del concerto e dei tour, ma non solo: nel concreto l’enorme potenziale della rete spesso sembra non bastare nel tutelare una vasta pluralità di ascolti, visto che oggi le piccole etichette discografiche e gli artisti cosiddetti indipendenti sentono di avere maggiori possibilità di avvicinarsi al grande pubblico, alle collaborazioni con le major e quindi anche agli standard di riferimento precedentemente citati.
Non è tuttavia questo il contesto per affrontare tutti i vantaggi e i limiti della rete legate alla promozione degli artisti e della loro musica; piuttosto in tale frangente ci basta notare come ci sia effettivamente stata negli ultimi anni una forte compenetrazione tra indie e mainstream, arrivando a superare i confini tradizionalmente esistenti.
A questo proposito i Ministri, rock band milanese con cinque album all’attivo, in un’intervista rilasciata a “Rolling Stone”, hanno affermato come una decina di anni fa ci fosse molta più fierezza nel rappresentare una sorta di “controcultura musicale” definita indipendente, mentre attualmente le realtà più piccole sarebbero più propense a tendere verso il cosiddetto mainstream. A loro avviso infatti una volta, tra questi due mondi, ci sarebbe stata una dicotomia molto forte, una sorta di contrapposizione politica che oggi non esisterebbe più. Resta tuttavia da capire come sia avvenuto un simile passaggio: secondo alcuni sarebbe stato l’universo del pop a fagocitare le realtà più underground, per altri invece la prima si sarebbe fondamentalmente adattata alle seconde.
Interessante è anche l’opinione di Giorgia D’Eraclea, in arte Giorgeness: “La cosiddetta musica mainstream era diventata troppo di plastica, così ad un certo punto si è capito c’era tutto un altro mondo fatto di persone che scrivevano canzoni, sempre pop ma molto più profonde e comunicative. La musica indie non è infatti solo musica molto complessa da ascoltare ma anche è tanto altro, anche perché per arrivare alla massa devi comunque suonare radiofonico. […] E’ con Calcutta che è successa tutta questa cosa. E’ riuscito a trovare un modo interessante di collocarsi nell’industria musicale che difatti ha aperto le porte a tutti noi altri”.
Secondo Emiliano Colasanti invece, fondatore della 42 records, etichetta che ha lanciato I Cani e che tuttora produce musicisti come Cosmo e Colapesce, oggi non ha più molto senso parlare di differenze tra indie e resto del mondo dato che attualmente con un “click” è possibile ascoltare qualsiasi cosa si voglia, da Miles Davis ai The Giornalisti.
Tutti quanti dunque sembrano poter partire adesso da uno stesso punto, al di là delle condizioni economiche e dall’etichetta o casa discografica di riferimento, piccola o grande che sia: tuttavia ciò non avrebbe evitato, almeno all’interno del nuovo circuito musicale preso qui in considerazione, un’omologazione del suono e dei contenuti sulla carta non del tutto in linea con le vaste potenzialità conferite dalle nuove tecnologie. Ciò significa probabilmente che, al fine di ottenere successo e di raggiungere determinati livelli, le dinamiche del pop e della cultura di massa, pur evolutesi con il passare dei decenni, avrebbero continuato ad avere un certo peso.
A tale proposito in definitiva sembra che indie e mainstream abbiano ad oggi bisogno allo stesso modo l’uno dell’altro, avendo avviato una sinergia che avrebbe portato benefici ad entrambi, pur producendo le criticità elencate.
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[1] Theodor W. Adorno, Sulla Popular Music, a cura di Marco Santoro, Armando Editore, Roma, 2005.
[2] Henry Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007.

Sono nato nel 1992 a Pisa. Mi sono laureato in Storia Contemporanea all’Università di Pisa con una tesi sulla radicalizzazione del Civil Rights Movement afroamericano all’interno della stampa italiana. Nel corso dei miei studi mi sono occupato in particolar modo di storia culturale degli anni ’60. Ho inoltre collaborato con un portale online (Bzona.it) che si occupa di calcio e con altri siti e blog che si occupano di politica e musica, di cui sono un grande appassionato.
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