Recentemente il fenomeno dei «cervelli in fuga»  sembra essere tornato nuovamente sotto i riflettori, complice molto probabilmente la crisi di governo e in parte l’emanazione del cosiddetto «Decreto Crescita». Come sottolinea un articolo di “La Repubblica”, una parte del decreto vorrebbe facilitare il rientro dei cosiddetti «cervelli in fuga» che abbiano trascorso due anni all’estero e che si impegnino a passare altrettanti anni in Italia con una tassazione del solo 30% sul reddito (al Meridione lo sconto arriva al 90%). L’articolo mostra come, da un punto di vista fiscale, il decreto avvantaggi particolarmente il mondo del calcio professionistico, ma rimane a mio avviso lacunare sul perché tale decreto non sia affatto un incentivo al ritorno per noi giovani (e non solo).

Circa un anno e mezzo fa mi trovavo in Erasmus a Parigi e pubblicai «Il mio paese: perché noi giovani ce ne andiamo dall’Italia». Come spiega il titolo, l’articolo era una riflessione sul perché noi giovani italiani andiamo a vivere all’estero.  Già allora più del cinquanta per cento della popolazione italiana tra i diciotto e i trentatré anni lasciava la penisola per non tornare. Già allora il fenomeno dell’immigrazione italiana era un problema serio ma analizzato con una lente superficiale. Tanto per cominciare, i «cervelli in fuga», quelle persone che hanno un’istruzione universitaria di alto livello (laurea magistrale, master, dottorati) fuggono effettivamente dall’Italia, ma non sono la maggioranza. La maggioranza degli italiani all’estero, infatti, è composta da persone che non hanno un così alto livello di istruzione e che spesso svolgono lavori molto meno intellettuali, ma più che dignitosi, di quel che si pensi. Chiarire questo equivoco è importante per almeno due motivi. Innanzitutto, anche se è normale che un ricercatore vada a svolgere dei soggiorni, talvolta molto lunghi, all’estero per la sua formazione non è sano per lo stato della ricerca italiana che il rapporto tra “cervelli” in uscita ed in entrata sia in squilibrio, favorendo il primo. Ciò che voglio dire è che è normale che un ricercatore vada all’estero, ma non è normale che un paese come l’Italia non sia appetibile per i ricercatori stranieri che tendono a non venire nella penisola. Le motivazioni sono varie ma, per certi versi, simili a quelle che spingono i «non cervelli» a partire: stipendi più bassi rispetto al resto d’Europa, bassi (o nulli) e quasi inaccessibili fondi per la ricerca, un sistema che è in parte corrotto al suo interno e che potremo definire «granitico», in cui la carriera è spesso lenta. Il secondo motivo è legato sia ad una questione di dignità lavorativa di chi non è un «cervello in fuga», sia alla motivazione di base che coinvolge quasi tutti (cervelli compresi) i migranti italiani ad andare all’estero. Sostenere, infatti, che solo «le migliori menti italiane se ne vanno» è, a mio avviso, altamente offensivo per chi svolge lavori ugualmente utili ma non intellettuali. Inoltre, non emerge la reale motivazione del perché andiamo all’estero. Come già l’anno scorso appresi da uno studio della Ca’Foscari, la maggioranza degli italiani all’estero emigra perché: «chi ora lascia l’Italia – specie tra i più giovani – non lo fa soltanto perché è costretto, per mancanza di lavoro o per l’impossibilità oggettiva di percepire uno stipendio dignitoso che consenta la programmazione del futuro. Chi emigra oggi lo fa anche perché è spinto da un contesto culturale e politico asfissiante, che non consente di intravedere un orizzonte di speranze, che brucia sul nascere perfino l’immaginario di un mondo e di una esistenza migliori. Insomma non è solo ricerca di lavoro, ma anche altro».  In sostanza, se emigriamo è perché non vediamo un futuro in questo paese e ciò è dovuto a molti motivi: una mentalità chiusa, meno tutele lavorative, stipendi più bassi, una società meno dinamica e aperta al mondo… Aspetti che rendono l’Italia un paese poco attraente anche per i «non cervelli in fuga» .

Credo che sia lampante la motivazione sul perché il Decreto Crescita non risolva assolutamente niente ma, anzi, sia soltanto un regalo alle società di calcio e ai calciatori. Non è di sgravi fiscali, infatti, che abbiamo bisogno. Non è questo che ci riporterà in Italia (a meno che non abbiamo stipendi milionari). Ciò che ci riporterà in questo paese, assieme ad altri concittadini europei, sarà la stabilità, una mentalità aperta sul mondo e una società dinamica, la possibilità di progettare il proprio futuro fondata sulla fiducia in questo paese. Ma non credo che queste condizioni arriveranno nel breve periodo. Credo, piuttosto, che la mia generazione sarà la generazione, come tante altre ma forse più di altre nella storia italiana, di emigrazione di massa. E se a ciò non vi sarà rimedio – e, si badi bene, il rimedio non è per una presunta italianità da difendere cui mi dissocio totalmente in quanto europeista convinto – la colpa non sarà solo di una classe politica inetta, che si interessa di noi giovani solo quando le fa comodo – per intenderci, questo governo non ha praticamente stanziato investimenti per la ricerca, ha bloccato il rinnovo del contratto per i ricercatori a tempo determinato, non ha fatto il famoso «concorsone» per assumere nuovi docenti per le scuole. La colpa sarà anche di chi si fa abbindolare dai facili discorsi e dalle facili promesse, dai tardivi ed ipocriti j’accuse. Al centro-nord si parla dei «terroni» per offenderli in quanto «poveri immigrati».

Non ci rendiamo conto che l’Italia è già il paese dei terroni all’interno di quel grande paese che è l’Europa e che così facendo la penisola rischia di essere ancora più sola, abbandonata a malincuore anche dai giovani.      

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