Da dove nasce il modo in cui pensiamo le mafie? Nel libro Lo Spettacolo della Mafia, Storia di un immaginario tra realtà e finzione” (Edizioni Gruppo Abele, 2019) Marcello Ravveduto, storico e docente di Digital Public History alle Università di Salerno e di Modena e Reggio Emilia, prova a fornire una risposta articolata basata sull’analisi di film, opere letterarie e canzoni, che prende spunto anche dall’attività dei media e dall’utilizzo dei social network. Una ricostruzione dei modi in cui la criminalità organizzata è stata raccontata, di come i mafiosi si sono autorappresentati e di come li hanno rappresentati gli altri. 

Professore, come nascono le rappresentazioni della criminalità organizzata? 

Nascono all’interno di una più grande rappresentazione che è quella del male; da sempre ha affascinato l’essere umano. I delitti sono una delle ragioni principali che suscitano interesse verso la cronaca. I più importanti scrittori del nostro tempo appartengono al giallo e al noir. Sono autori che hanno avuto la capacità di narrare attraverso la finzione una realtà piegata verso il male, difficilmente raccontabile attraverso la storia ufficiale.

Chi ha permesso la costruzione dell’immaginario mafioso in Italia?

L’immaginario è nato all’interno di una narrazione della finzione, che in molti casi è stato permessa dalle classi dirigenti del nostro paese. Già alla fine dell’Ottocento, le élites dipingevano mafia e camorra come realtà che non appartenevano al quotidiano e che non riguardavano tutti i cittadini. Una narrazione separata che è durata per molto tempo. Si pensi all’utilizzo delle parole e al loro significato; la mafia è “un cancro”, cioè una cosa che viene definita sopra la normalità. Il racconto distorto ha diffuso l’idea di un male “che non ci riguarda”, di un elemento esterno al nostro corpo sociale. Un maniera per tranquillizzare l’opinione pubblica. Questa descrizione popolare e ricca di stereotipi della mafia è durata perlomeno fino agli anni ‘80 del secolo scorso, quando il paradigma relazionale – la mafia vista come parte integrante della nostra società – ha iniziato a prendere il sopravvento.

Che influenza ha avuto un film come “Il Padrino”?

Il film diretto da Coppola è la madre di tutti gli stereotipi mafiosi contemporanei. Rappresenta un folklore interamente cinematografico, una cinghia di trasmissione che contiene tanti immaginari capaci di influenzare i mafiosi stessi. Alcune intercettazioni delle FBI hanno registrato boss che si atteggiavano come Don Vito Corleone. Il racconto del male, non è solamente influenzato dai “cattivi”, ma anche da chi lo racconta. Sono narrazioni affascinanti e che affascinano, in grado di arrivare anche a un pubblico “specializzato”: i mafiosi stessi.  

Com’è cambiato l’immaginario della criminalità organizzata con la globalizzazione?

L’immaginario di adesso è quello del “magazine da sfogliare”, con foto e scene di film in grado di rappresentare la realtà. Moltissimi giovani che sono affascinati dal modo di essere della mafia utilizzano le immagini dell’Isis. Forte si rivela la narrazione dei “narcos”; c’è moltissima violenza, ma vi è un processo di estetizzazione, una costruzione del proprio potere e benessere: rolex, piscine e macchine di lusso. È la dimostrazione di una mafia glamour. Essere ricchi e diversi, “orgogliosamente criminali”. Questo è un nuovo aspetto nella narrazione della globalizzazione. I mafiosi prima si raccontavano come contadini che erano stati costretti a difendersi dalle angherie dello Stato. La narrazione di oggi invece è quella del vincente, di quelli che “stanno sopra”, capaci di governare i processi di finanziarizzazione del narcotraffico. Vogliono far passare un messaggio: “Gli altri si affannano di vivere la vita di tutti i giorni, mentre noi no”.

Si può parlare di penetrazione della cultura mafiosa nella nostra società?

Senz’altro vi è stata una penetrazione della mentalità di prevaricazione: una dimensione mafiosa in quanto ottenimento del benessere attraverso la violenza. Ma tutto ciò è molto connaturato al paradigma dominante: quello neoliberista. Buona parte del narcotraffico si può definire come un pilastro del mondo globalizzato, che è stato reso possibile dagli operatori economici e da un jet set internazionale costituito da grandi economie illegali. Inoltre, all’interno della mafie di oggi si notano gli stessi mutamenti provocati dalla globalizzazione neoliberista. Dentro i clan vi sono le “stesse guerre”: ricchi vs poveri, con un aumento delle disuguaglianze e delle differenze di reddito. Il racconto del mondo della globalizzazione si sposa quindi con le forme e la mentalità di essere mafiosi. Si può parlare addirittura di un mondo che si è avvicinato all’immaginario, non viceversa.

Ci sono stati boss capaci di influenzare la costruzione dell’immaginario mafiosi?

Si e penso a Raffaele Cutolo. È stato l’unico boss che in Italia ha costruito –  nonostante un’esistenza passata quasi esclusivamente in carcere (vi è tuttora n.d.r.) – un sistema di comunicazione e un culto della propria personalità. Cutolo è un grande leader ideologico, paragonabile solamente a Pablo Escobar. Entrambi si rappresentavano come dei “Robin Hood”, dei banditi sociali al servizio delle persone, “eroi” capaci di riparare alle storture della società. Cutolo ci metteva molta teatralità; riusciva a introiettare e rimodulare la poca cultura che aveva attraverso quello che sentiva e vedeva nelle carceri. Trasformò l’ideologia terroristica degli anni ‘70 in un’ideologia criminale e popolare, capace di tenere insieme la Nuova Camorra Organizzata (NCO), un gruppo di giovani che sarebbe divenuto poi un gruppo criminale sempre più grande. Cutolo ha influenzato parecchio la camorra, divenuta oggi una criminalità fortemente violenta e metropolitana. Persino la prima serie di Gomorra contiene molti riferimenti all’immaginario del vecchio boss. Pietro Savastano, uno dei personaggi della serie, porta con sé molti elementi cutoliani. 

E Totò Riina invece? Del capo dei capi si è parlato molto fin dal momento del suo arresto (1993).

Pure Riina ha determinato un immaginario, tuttavia è stato costruito dai media. Il boss corleonese venne catturato dopo una lunga latitanza; da quel momento i giornalisti hanno cominciato a raccontare Riina. In Tribunale appariva come un contadino che non sapeva parlare. Il racconto era completamente costruito da altri. La celebre serie televisiva Il capo dei capi si basava su cronache e atti giudiziari, su ciò che noi sapevamo di Riina: lui non ha mai raccontato di sé. La figura del Corleonese rimane molto forte nell’immaginario di Cosa nostra; ma si tratta di una realtà costruita dai media. Ecco la differenza sostanziale con Cutolo. Il boss camorrista era stato capace di raccontare il proprio immaginario volontariamente, mentre Riina – figura fantasmagorica e latitante da decenni – non lo fece. 

È corretto parlare di mafia come brand forte?

La questione del brand è legata alla mentalità e a come ci si presenta. Essere mafiosi significa affermare l’eleganza e la ricchezza. Una dimensione di successo che si lega alle grandi imprese, alla pubblicità delle aziende che esistono da parecchi anni, che si sono arricchite e hanno permesso di arricchire. “Io sono mafioso in quanto appartengo a un’impresa che esiste da molto tempo, che non va mai in crisi e garantisce qualità”. La facilità del racconto ha la capacità di diventare poi elemento di narrazione nel linguaggio pubblicitario.

I mafiosi come si rapportano ai social network? Come li utilizzano?

Come qualsiasi altro utente. In un primo periodo li usavano in maniera ludica, mettendo però a rischio la regola aurea dell’omertà. Diversi latitanti che avevano poca dimestichezza nell’uso della geolocalizzazione vennero catturati. Si è disseminato, tuttavia, un primo immaginario: nascono gruppi, pagine fan e profili fake che da un lato amplificano le imprese dei grandi boss del passato, dall’altro esaltano la potenza delle organizzazioni criminali nel presente. In una fase successiva, e di consolidamento, si radica una specifica retorica mafiosa. I giovani dei clan, in particolare, imparano a sfruttare il socialcasting: messaggi testuali e frammenti audiovisivi espliciti che provocano il corto circuito tra reale e virtuale. Il vissuto camorristico condiziona l’identità digitale che a sua volta è influenzata dalla realtà criminale. La fase attuale è dominata dalla “Google generation criminale”: i nati tra la fine dei Novanta e i primi del Duemila sfruttano in maniera intuitiva e senza sforzo le potenzialità dei social media. Come tutti i “nativi digitali”, utilizzano al massimo le potenzialità del mezzo indicando pratiche e stratagemmi ignoti alle generazioni mafiose precedenti. 

Che rapporto c’è tra la musica e l’immaginario mafioso?

In passato la scena neomelodica aveva incorporato nella propria produzione musicale il racconto della marginalità e delle periferie. Negli ultimi dieci anni vi è stata una trasformazione nell’idea di narrazione e altri generi (soprattutto rap e trap) hanno raccontato la marginalità, la violenza della metropoli (è il caso di Napoli) e delle mafie, che sono viste come elementi criminali e naturali di quella realtà. La nuova narrazione ha ripreso dal linguaggio globalizzato gli elementi del protagonismo sociale: giovani che stanno orgogliosamente dalla parte del male per conquistare ciò di cui hanno bisogno. “Giovani fuoriclasse”, come canta il rapper Capo Plaza. Quello che colpisce è che molti dei protagonisti di queste canzoni portano dei tatuaggi che hanno la faccia del Joker di Batman. Vogliono mandare un messaggio. “Siamo degli antieroi”, che “godono nel compiere azioni malvagie”. Sono immaginari di nuove generazioni che si mescolano alla serialità cinematografica sempre più presente. Il racconto del male passa quindi da una dimensione reale a una puramente immaginaria; una specie di riferimento per definirsi come “cattivi orgogliosamente avversari”. 

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