La mafia a Roma non esiste, anche se rimangono i crimini di Carminati e soci: l’associazione a delinquere di stampo mafioso non è stata riconosciuta per l’inchiesta “mondo di mezzo”. Il carcere duro? Sarà un po’ meno pesante per i mafiosi, grazie a “permessi e concessioni durante la fase di rieducazione”. Nel giro di due giorni, due sentenze diverse, emesse da organismi con funzioni differenti (Corte di Cassazione e Corte Costituzionale), hanno messo nero su bianco delle decisioni che avranno ripercussioni importanti sull’antimafia culturale e giudiziaria, per come l’abbiamo conosciuta finora. A tal riguardo l’opinione pubblica si divide in due parti, al momento nettamente diseguali. La prima, quella maggioritaria, grida allo scandalo per i verdetti dei giudici, la seconda invece, costituita perlopiù dai legali dei soggetti coinvolti, esulta per l”l’innocenza” dei protagonisti di Mafia Capitale e parla di angherie subite dai mafiosi condannati all’ergastolo. Occorre valutare gli effetti di quello che potrà succedere nelle prossime settimane e mesi, perché i due verdetti rischiano di segnare una retromarcia, di minare alcune fondamenta della lotta alle mafie.
La sentenza su Mafia Capitale rischia di portare fuori strada l’opinione pubblica, assolvendo un’intera città che, come dimostrano numerose inchieste giornalistiche e giudiziarie, ha un problema serio con la criminalità organizzata. La decisione della Corte di Cassazione che ha annullato senza rinvio la sentenza dell’Appello che riconosceva l’associazione mafiosa per gli imputati dell’indagine retta dall’ex procuratore Giuseppe Pignatone – ora presidente del Tribunale Vaticano – rischia di portare a una sottovalutazione della presenza mafiosa nella Capitale.
Le organizzazioni mafiose sono presenti da molti anni a Roma: numerose sentenze passate in giudicato lo testimoniano. Interi quartieri e migliaia di persone vivono soggiogate a potenti clan. I casi di Ostia lo insegnano: i Fasciani e gli Spada – uno dei membri di questo clan è noto per aver picchiato un giornalista di Rai Due – sono stati riconosciuti come dei gruppi mafiosi.
Il mancato riconoscimento dell’associazione mafiosa a Carminati e soci comporterà una serie di grida e slogan pronti già da tempo: “La mafia? Non ci riguarda. É un problema del Sud”. Si parlerà di reputazione e prestigio di certe città del Nord e Centro Nord messo a repentaglio e a rischio dalle parole “sventurate” di chi sostiene e denuncia con coraggio che “la mafia è un problema serio”. Del resto, circa un anno fa, un questionario distribuito da Libera a 10000 mila persone, in tutta la Penisola, metteva in evidenza come per gran parte dei soggetti intervistati la mafia non costituisse un “fenomeno preoccupante”. Di più: si trattava di una questione che riguardava “alcune aree del paese”: Campania, Calabria e Sicilia, cioè le aree di insediamento tradizionale mafioso.
Discorso più complesso per la decisione presa dalla Corte Costituzionale in merito all’ergastolo ostativo, alla scelta di dichiarare incostituzionale la mancata concessione dei permessi ai mafiosi, senza fare distinzione tra chi collabora con le autorità giudiziarie e chi non lo fa, valutando tuttavia “la piena partecipazione del condannato al percorso di rieducazione”.
La sentenza degli “ermellini”, che ha accolto il ricorso presentato da Sebastiano Cannizzaro, ex boss del clan Santapaola e di Cosa Nostra nella provincia di Catania, recepisce in parte un altro verdetto: quello pronunciato qualche settimana fa dalla Corte di Strasburgo, che condannava l’Italia a riformare il carcere duro. Con la decisione presa dalla Consulta il Parlamento italiano dovrà modificare le norme, in particolare l’articolo 4, comma 1 bis, tra i punti fissi dell’ordinamento penitenziario. Il rischio di questo verdetto? Renderà possibile ai condannati al carcere duro di incontrare e stabilire rapporti con l’esterno ( “i permessi e le concessioni”), con quel mondo i cui fili rimangono sempre annodati per un boss, anche quando si trova ammanettato e in carcere. Del resto, la storia delle organizzazioni mafiose è piena di capimafia entrati e usciti dalle patrie galere come se fosse normale. Negli anni ‘70 a Palermo alcuni esponenti di Cosa Nostra potevano permettersi il lusso di incontrare chiunque all’interno del carcere dell’Ucciardone. I tempi sono cambiati per fortuna. E la consapevolezza del problema rappresentato dalle mafie è aumentata notevolmente nel nostro paese. Tuttavia i rischi che potrebbe provocare la decisione – assolutamente legittima – presa dai giudici romani rischia di compromettere il lavoro fatto negli ultimi anni. Le misure del carcere duro trovano la loro fondamenta e la loro legittimità in un principio cardine per chi combatte quotidianamente la criminalità organizzata: recidere i legami e i network relazionali dei mafiosi.
Le sentenze su Mafia Capitale e carcere duro segnano quindi una retromarcia, probabilmente inconsapevole. Un dietrofront, un passo falso, un inciampo, sia dal punto di vista culturale (primo verdetto), sia dal punto di vista giudiziario (secondo verdetto). Le prossime settimane e i mesi a venire – verrebbe da dire anni – ci diranno meglio chi ha torto e chi ha ragione.
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Cofondatore de L’Eclettico e giornalista professionista. Mille pensieri, tanta curiosità e voglia di mettersi in discussione. Scrivo, ascolto e leggo (parecchio). Mi sono laureato in Storia e ho avuto la possibilità di studiare la criminalità organizzata, tema di cui mi occupo con frequenza. Per lavoro seguo in maniera ossessiva la politica e tutto ciò che vi ruota attorno. Ogni tanto però mi concedo una pausa, qualche viaggio all’estero o in Italia. Al mio fianco ho sempre un sottofondo musicale: il rap.