Che cosa rimane oggi, trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, dello status e del potere statunitensi che, assieme all’accelerazione dell’integrazione europea, sembravano ormai predominanti e trionfanti?

Nonostante ancora oggi si stenti a riconoscerne il ruolo determinante, uno degli obiettivi statunitensi durante la Guerra Fredda fu la creazione di un ordine globale multipolare che, nell’eredità del wilsonismo e nella sua rilettura rooseveltiana dei «quattro gendarmi», proprio dalla presenza degli Stati Uniti dipendeva. Fu sulla definizione di quest’ordine, dei suoi costi e sul ruolo degli States nel mondo, che si giocarono molti dei dibattiti politici tra una élite favorevole all’impegno internazionale ed una isolazionista. In tal senso il crudo isolazionismo trumpiano è anch’esso parte di un dibattito sviluppatosi negli anni del confronto con l’Unione Sovietica – se non nell’arco del “secolo lungo americano”, iniziato con il confronto tra wilsonismo e bolscevismo. Un dibattito in cui si scontrano anche visioni filosofiche tra chi vede l’ambito internazionale dominato dall’anarchia e il caos in cui uno Stato più forte prevale sull’altro (le due letture hobbesiane e hegeliane), oppure tra chi vi vede la possibilità di potere portare ordine attraverso la creazione di un governo (o di un ordine) mondiale che garantisca la pace perpetua grazie alla diffusione delle democrazie (la lettura kantiana, assorbita in parte anche dai neocon). Dibattito, anche questo, già presente durante la Guerra Fredda in cui, gradualmente, la fazione più isolazionista e unilateralista, la cui incarnazione migliore forse più che in Trump sembra essere nel suo ex Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, è riuscita gradualmente ad accaparrarsi preminenza, non solo all’interno del Partito repubblicano. È sufficiente un confronto tra i primi cinque candidati alle primarie democratiche per rendersene conto: perlomeno due di essi, Warren e Sanders, sono favorevoli ad una riduzione dell’impegno militare e degli investimenti in questo settore, per concentrare i loro sforzi sulle problematiche domestiche. Anche gli altri tre candidati, Biden, Buttigieg e Harris, che hanno invece posizioni più tradizionali sui temi di difesa e politica estera, concentrano comunque la loro attenzione sulle issues interni al paese. Se Barack Obama aveva promosso una riedizione del ruolo statunitense nel mondo, fondata però su una preminenza americana selettiva nei suoi interventi, [1] il notevole impatto avuto dalla candidatura di Sanders e dalla crescita dei “socialisti” ha scompaginato le carte in tavola. A questi ultimi manca una chiara e definita visione della politica estera, se non declinata su posizioni critiche dell’interventismo statunitense (ad esempio la guerra in Iraq): la questione internazionale sembra essere relegata ad un ruolo secondario. Questione non da poco visto che parte dei programmi dei “socialisti” sono una riedizione del welfare capitalism, di cui il Partito democratico fu fautore dall’elezione di Roosevelt alla fine degli anni Settanta.

Il problema dell’isolazionismo è che la forza e il benessere di cui gli Stati Uniti hanno goduto fino ad ora derivano dalla rete globale e multipolare che hanno contribuito più di altri ha creare e modellare. Problema per tutti, poiché in quest’ordine viviamo beneficiando dei suoi vantaggi, specialmente in Europa – tralasciando il problema che la questione di una Washington isolazionista pone su molti dei dossier internazionali più caldi, come l’Iran o la questione climatica.

L’isolazionismo è il sogno di poter attuare una politica insulare in un mondo che insulare non lo è più – ammesso che mai lo sia stato in passato. Il sogno di poter riportare indietro le lancette per realizzare la fantomatica «città sulla collina».

Ma non si tratta solo di un sogno, quanto anche di una serie di problemi irrisolti che si svilupparono durante la Guerra Fredda e che quest’ultima contribuì a non fare deflagrare; questioni che gli Stati Uniti non seppero riconoscere all’epoca e che dagli anni Novanta in poi, quando molti di essi emersero, stentano a definirne i contorni senza dovere ricorrere alle letture e ai linguaggi che di quel passato sono un retaggio. [2] Si tratta di tematiche irrisolte, in paesi apparentemente periferici, che sono rimaste lontane dai riflettori fino ad esplodere. L’Afghanistan e l’Iraq sono i casi più eclatanti: in entrambi il problema era iniziato durante la Guerra Fredda e si era trascinato lungo gli anni Novanta. Solamente l’Iraq aveva ricevuto delle attenzioni e degli interventi chirurgici prima del 2003, ma non risolutivi.[3]

In ultimo è la sfida della gestione e della riconversione del proprio potere, della capacità di aggiornarlo alla fine di una sfida ma non di quelle che questa conteneva in nuce. [4] La sfida di essere il pilastro di un sistema internazionale che sugli Stati Uniti poggia, specialmente in un contesto di ridefinizione degli equilibri geopolitici. Perché una delle questioni poste dalla Guerra Fredda è proprio quella dell’ordine internazionale, degli equilibri regionali e di chi deve vigilarvi.[5]

In tal senso due sembrano essere le strade possibili: una, in cui Washington sarà presente ma senza fare politica di potenza – ammesso che, allo stato attuale delle cose sia possibile – un’altra dove gli States saranno il o uno dei pilastri dell’ordine (ciò che Obama aveva iniziato a fare), costringendo la Cina ad accettare le regole internazionali. In ogni caso, a trent’anni dal crollo del muro di Berlino l’iperpotenza statunitense sembra un po’ più in affanno di quanto ci si sarebbe aspettato. È sempre bene, comunque, essere prudenti nel dare giudizi troppo sommari sullo stato di salute degli Stati Uniti perché, citando Mark Twain: «le notizie sulla mia morte sono state grandemente  esagerate».

Nel 1989 un’era sembrava giunta al suo crepuscolo, ma le questioni che essa celava sono più vive che mai.


[1] Mario Del Pero, Era Obama, Dalla Speranza del Cambiamento all’Elezione di Trump, Milano, Feltrinelli, 2017, pp. 22-33, pp. 62-62

[2] Odd Arne Westad, The Cold War. A World History, New York, Hachette Book Group, 2017, pp. 617-629. Si veda anche: Odd Arne Westad, The Global Cold War. Third World Interventions and the Making of Our Times, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, p. 395.

[3] Mario Del Pero, Libertà e Impero Gli Stati Uniti e il mondo. 1776-2011, Bari, Editori Laterza, 2011, p. 427.

[4] Joseph Jr. Nye, Fine del Secolo Americano?, Blogna, Il Mulino, 2016, pp. 115-123.

[5] Ivi, cap. 3, 4 e 6.

© Riproduzione riservata