Nonostante non possano entrare a far parte delle mafia le donne svolgono ruoli importanti per “l’onorata società”. Si occupano di compiti che potremmo definire tradizionali e legati alla dimensione socio – culturale dell’organizzazione. E di mansioni più pratiche, connesse direttamente alle attività criminose dell’associazione. Un miscela di complicità e di subordinazione tinto di rosa che non va sottovalutato.

Innanzitutto le donne trasmettono il codice culturale mafioso ai figli. Insegnano i “principi” identitari necessari a inculcare nei ragazzi un immaginario e un metodo che dovranno poi applicare “da grandi”, a suon di estorsioni, omicidi e relazioni sociali. Le donne mafiose sono anche mogli di boss; spesso i matrimoni sanciscono le alleanze tra i diversi clan. In questo caso, esse sono garanti della reputazione maschile. Svolgono una funzione passiva: è come se fossero “l’oggetto di scambio” nelle strategie mafiose. Una subordinazione che opera nel controllo dei comportamenti sessuali a cui le donne sono costrette secondo le regole del codice d’onore; è la rinuncia ai propri sentimenti nell’ambito di matrimoni combinati, necessari a sigillare patti o scongiurare faide tra cosche.

Tuttavia – una volta divenute spose – le donne mafiose possono svolgere una funzione attiva: ricordare agli uomini di famiglia il proprio dovere di compiere la vendetta nei casi di disonore e di offesa ricevuta.

Anche se l’universo femminile viene escluso dalla “dimensione pubblica” del sistema mafioso (l’affiliazione con rito) può tuttavia partecipare ai traffici e alle attività dei sodalizi criminali. Secondo la studiosa e sociologa della criminalità organizzata Ombretta Ingrascì “sono due i processi che hanno concorso delle donne nella sfera criminale delle associazioni mafiose”[1]. Il primo sarebbe esterno ed è costituito dai mutamenti che negli ultimi decenni hanno interessato la condizione della donna nella società; il riferimento è ai cambiamenti in relazione all’istruzione, ai costumi sociali, al mercato del lavoro e alle aspettative sociali rispetto al genere di riferimento. Ruoli che prima erano riservati esclusivamente agli uomini ora non lo sono più. I mutamenti che sono avvenuti nella società hanno riguardato pure il mondo mafioso, visto che non si tratta di un corpo esterno ed estraneo alla realtà in cui viviamo quotidianamente.

Sempre Ingrascì [2] ha individuato il secondo processo nelle trasformazioni avvenute nelle organizzazioni criminali; a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso i mafiosi hanno esteso le proprie attività illecite sia in riferimento alle tipologie dei traffici, sia in termini geografici. Da qui la necessità di rivolgersi a una manodopera più variegata e la decisione di assoldare anche coloro che, secondo le regole del codice d’onore, non avevano i requisiti necessari per far parte delle mafie. L’ingresso delle donne era stato favorito quindi dal sistematico inserimento mafioso nei traffici di stupefacenti e dall’espansione del settore finanziario conseguente alla crescente necessità di reinvestire i profitti illeciti. 

Quasi vent’anni più tardi, cioè a partire dai primi anni ‘90, la partecipazione femminile nelle organizzazioni mafiose è stata favorita dagli effetti della repressione statale, specie in Sicilia e in Campania; per esempio, i principali boss di Cosa Nostra, Totò Riina in primis, vennero arrestati e condotti in carceri di massima sicurezza. La cattura di molti capimafia e l’esistenza di numerosi latitanti (altro esempio: Bernardo Provenzano) ha provocato una progressiva perdita di potere per le mafie: era necessario rivolgersi alle donne di famiglia come riserva da utilizzare nei posti vacanti dell’organigramma mafioso. Mogli e madri iniziarono così a gestire cosche e mandamenti che erano stati privati dei loro capi, arrestati o resisi latitanti per sfuggire alle “grinfie dello Stato”. Rosa N., una collaboratrice di giustizia che apparteneva a una famiglia della ‘ndrangheta, ha raccontato: “Gli uomini erano sempre latitanti o erano agli arresti domiciliari forzati, perché si arrendevano da soli, cioè stavano chiusi in casa, e chi lavorava erano tutte le donne (…)[3]. 

Non dobbiamo dimenticare che l’appartenenza familiare era la condizione primaria per una legittimazione di questo potere femminile. Più si sale di grado nella gerarchia mafiosa, più aumentano le possibilità di vedere donne dotate di ampi poteri.

Secondo Ingrasì “si può supporre che l’uomo affidi il potere alla donna perché è certo che questa si limiterà a custodirlo e che quindi, una volta ritornato sulla scena criminale, potrà riprenderselo pienamente. Eventualità che potrebbe non verificarsi nel momento in cui il potere venisse consegnato a un luogotenente che, se pur fidato, essendo di sesso maschile, potrebbe aspirare a fare carriera all’interno dell’organizzazione criminale”[4].

Il ruolo delle donne nelle organizzazioni mafiose non va quindi trascurato. Ci fornisce una narrazione che rischierebbe di non essere raccontata: una storia fatta di vittime passive, di complici attive e di protagoniste decisive. 


[1] Ombretta Ingrascì, Donne di mafia: dall’universo culturale alla sfera criminale, p. 315 in Traffici criminali. Camorra, mafie e reti internazionali dell’illegalità, a cura di G. Gribaudi, Bollati Boringhieri, Torino,

[2] Ivi.

[3] Cit. Ingrascì, Donne di mafia, p. 319.

[4] Ingrascì, Donne di mafia, p. 318.

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