“Professionisti dell’antimafia”. Un’espressione che evoca polemiche lontane ma allo stesso tempo attuali. Il protagonista di questa storia che parte da lontano è un letterato che non ha bisogno di presentazioni, capace di raccontare con i suoi romanzi (citiamo volentieri Il Contesto e Il giorno della civetta) alcune sfaccettature della mafia; lo faceva in anni insospettabili, quando nel campo delle scienze sociali regnava l’approssimazione e la confusione sul tema.

Ci troviamo negli anni ‘70. GLI “Anni di piombo”, caratterizzati da escalation violente e da stragi. In Leonardo Sciascia si rafforzava l’idea che in Italia non ci fosse uno Stato vero. Lo scrittore di Racalmuto si avvicinò al Partito Radicale di Marco Pannella; erano accomunati dal rifiuto di accreditare la repressione, di accettare l’idea che il paese si trovasse in uno stato di emergenza. Sentenziò addirittura che Aldo Moro era stato ucciso da “due stalinismi”, quello delle Brigate rosse e quello del Partito Comunista  riconvertito alle logiche da “fronte nazionale”, dall’ossessione della collaborazione con il partito di maggioranza[1].

Questo rifiuto di schierarsi per lo Stato non lo predisponeva certo alla simpatia verso i metodi impiegati dallo “Stato”, o meglio dalle procure più impegnate su quel fronte, dai pool antiterrorismo formatisi nella lotta. dalle varie polizie e dalle loro tecniche di indagine più o meno coperte. Nuovi motivi di polemica vennero dal blitz napoletano del 1983 che valse a demolire la NCO (Nuova camorra organizzata) di Raffaele Cutolo, ma che portò alla carcerazione di Enzo Tortora, il quale sarebbe risultato del tutto innocente, ma solo al termine di un’odissea giudiziaria. Sciascia disse con chiarezza che questi era caduto in un meccanismo infernale: gli inquirenti avevano interesse ad accreditare i loro teoremi, i pentiti erano disposti a qualsiasi calunnia, e la palese estraneità dell’imputato ai fatti non interessava. Il caso Tortora dimostrò che tutta la tecnologia investigativo – giudiziaria creata per combattere il terrorismo si stava trasferendo nel contrasto alla criminalità organizzata, e insieme a questa strumentazione anche i rischi di eccessi, le possibili distorsioni insite nei meccanismi e negli istituti repressivi “speciali” sperimentati nell’uno come nell’altro caso: le carceri di massima sicurezza, i maxiprocessi con l’enfasi posta sui reati associativi e le relative difficoltà di un’efficace difesa dei singoli, l’uso dei pentiti con la legislazione di tipo “premiale” intesa a incentivare la loro collaborazione ma anche foriera di dubbi.

E arriviamo al decennio successivo, gli anni ‘80. Nel bel mezzo del maxiprocesso cade il celebre articolo di Leonardo Sciascia, pubblicato sul “Corriere della Sera”, redazionalmente intitolato ai “Professionisti dell’antimafia”, la famigerata espressione che abbiamo citato all’inizio. L’articolo ha una struttura particolare, come se derivasse da una giustapposizione di parti diverse. Sciascia parte con una serie di “autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria e/o lunga malafede”, intese a comprovare il suo costante impegno nell’analisi del fenomeno mafioso. Continua con una recensione al libro di Christopher Duggan, “La mafia durante il fascismo”, uno dei primi sul tema della mafia a far uso di una vera metodologia storiografica, a citare fonti d’archivio e a ricostruire contesti. Duggan inquadra l’operazione antimafia del prefetto Cesare Mori in una lotta fazionaria, interna al Pnf (Partito Nazionale Fascista): sostenendo che Mori usò contro il federale palermitano Alfredo Cucco e i suoi sodali, l’accusa di mafiosità, in maniera più o meno strumentale e comunque con l’intento di eliminarli dalla scena politica. “L’antimafia”, ne deduce Sciascia, può rappresentare uno “strumento di potere”, in regime fascista ma “anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando: come potrebbe ad esempio accadere – “esempio ipotetico” – nel caso di un sindaco pronto a spacciare per antimafia la sua azione amministrativa e come apologia della mafia ogni sia pur timida critica dei suoi avversari”. Il criptico riferimento all’”ipotetico” sindaco riguardava Leoluca Orlando, sindaco di Palermo nella metà degli anni ottanta (e lo è tuttora).

Sciascia individuava con grande acume la possibilità che l’antimafia politica si risolvesse in una retorica e in uno strumento di lotte di fazione, anche se poi cade nell’errore di lasciarsi prendere dallo spirito di fazione. La parte più sorprendente dell’articolo è quella dove non si fanno più esempi ipotetici ma, con nome e cognome, viene attaccato Paolo Borsellino, membro del pool degli inquirenti del Maxiprocesso, appena nominato dal Csm procuratore della repubblica di Marsala. Contro questa nomina Sciascia aveva da ridire. A favore di Borsellino, secondo il letterato, deponeva “solo” la maggior esperienza in processi di mafia, mentre equità vorrebbe che venga premiata la maggiore anzianità dei suoi concorrenti. Nella conclusione dell’articolo lo scrittore di Racalmuto invitava perentoriamente i suoi lettori a prendere atto “che nulla vale di più, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. In seguito alla pubblicazione dell’articolo lo scrittore venne isolato dalle maggiori forze politiche (eccezion fatta per i socialisti e radicali) e considerato da molti come un voltagabbana. Uscì un comunicato dell’associazione Coordinamento antimafia che, utilizzando la classificazione antropologica del capomafia don Mariano, coprotagonista del romanzo “Il giorno della civetta”, che distingueva uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaracquà, definiva Sciascia un quaquaracquà, cioè una nullità, e lo relegava “ai margini della società civile”[2].

Il comunicato suscitò la reazione di Sciascia che definì il coordinamento “frangia fanatica e stupida di quel costituendo o costituito potere… un potere fondato sulla lotta alla mafia che non consente dubbio, dissenso, critica. Ne sono soddisfatto: si sono consegnati all’opinione di chi sa di avere un’opinione, nella loro vera immagine”. Per Sciascia coordinava “interessi politici e stupidità”[3].

Sono passati più di trent’anni da quella polemica e l’espressione “Professionisti dell’antimafia” continua ad essere famigerata; il suo utilizzo è spendibile ogni qualvolta il dibattito pubblico lo ritiene necessario. Bisogna riconoscere a Sciascia di essere stato lungimirante nelle sue critiche. Il letterato colpì il bersaglio sbagliato (Borsellino) ma le sue osservazioni rimangono valide, specie nell’Italia di oggi, dove il carrierismo “fondato sulla lotta alla mafia” è ben presente. Alle elezioni politiche del 2013 abbiamo avuto un candidato premier (Antonio Ingroia) che impugnava il vessillo antimafia come ragione politica del suo essere; un magistrato occupatosi di “processi per mafia” e che gli valsero l’acquisizione di fama e notorietà pubblica. Passò dall’esercizio dell’azione penale all’arena politica, dai collaboratori di giustizia alle poltrone dei talk show, dalle udienze della Corte ai comizi elettorali. Tutto ciò avvenne in un batter d’occhio, come se fosse una cosa normale. Forse Leonardo Sciascia ha sbagliato soltanto la data di pubblicazione del suo articolo.    


[1] Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, Palermo 1978, pp. 64 – 65.

[2] Umberto Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Runiti, Roma, 2009, pp. 325 ss.

[3] Leonardo Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano, 1989, p. 131.

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