La centralità accordata al lavoro come perno della vita dell’uomo e del cittadino è una delle caratteristiche salienti delle società industriali e post industriali. Ciò che oggi definiamo come «lavoro» era ritenuto, nelle società preindustriali, una squalifica, una punizione divina oppure, specialmente nell’ancien regime, il carattere distintivo tra la noblesse, che non lavorava, e i sudditi, che invece lavoravano. Come sosteneva Tommaso d’Aquino: «La felicità perfetta dell’uomo non può esser altro che la visione dell’essenza divina».[1]
Con il definirsi del capitalismo e della centralità della borghesia, la quale fece del lavoro il centro della sua ideologia, a partire dal Cinquecento questa impostazione sociale iniziò a mutare ed il lavoro iniziò ad essere pensato come criterio di inclusione nella società anziché di esclusione, come fondamento della proprietà privata (Locke), come fondamento del wealth of nation (Smith), come momento di liberazione formale dell’uomo dalla immediatezza dei bisogni nella società civile (Hegel).[2] Quindi, pur senza perdere i propri caratteri di necessità, sulla base del nuovo rapporto tra sapere e tecnica attuato dallo sperimentalismo scientifico, il lavoro acquisì un rilievo ed una centralità prima sconosciuti, giungendo con i Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx ad avere una prima concettualizzazione nel significato generale della libertà attraverso il lavoro.
Gradualmente, il lavoro è divenuto il centro di un’utopia che ricerca la concretizzazione di una società migliore. Quest’ultima la si ritiene fondata sulla liberazione dell’uomo dalle sue necessità materiali, ritenendo che ciò sia sufficiente a rispondere anche alle domande essenziali riguardanti la condizione umana. Difatti, il successo lavorativo coincide con la realizzazione personale e sociale e, dunque, con maggiori o minori mezzi economici per soddisfare le esigenze materiali. Più il successo sul lavoro è riconosciuto, più grande è la nobilitazione che esso porta nella vita; per dirla con Weber: il beruf, la vocazione professionale, è realizzato.[3]
Il lavoro è quindi ciò che definisce l’uomo e il posto che occupa all’interno della società che, a sua volta, è definita dall’egemonia accordata ad esso. Nobilitando e liberando dalle necessità materiali l’uomo, il lavoro è così al centro di una contraddittoria ricerca della libertà che porta l’individuo a vivere per lavorare e non a lavorare per vivere. Quest’ultima espressione intende la costatazione che il lavoro ha perso i suoi caratteri di prima necessità (lavorare per vivere), divenendo ciò che definisce la vita, il suo centro, il suo tutto (vivere per lavorare).
La tecnica è ciò che garantisce un facile accesso all’efficienza produttiva e al successo lavorativo; essa si fonda sulla capacità di trasformare un insieme di informazioni in una forma di conoscenza volta ad ottenere il massimo profitto con la minima spesa e con il minore tempo possibile, individuando così un modello ripetibile di condotte disciplinanti.[4] Pertanto, il potere è individuabile nella disponibilità delle informazioni e nella capacità di trasformarle in conoscenza esercitando un dominio su di essa.[5] Con tecnica si intende,quindi, una competenza specifica in un determinato settore tale da garantire la massima efficienza. [6] Il sapere è, così, stimato come ciò che permette di avere un effetto ben preciso valutabile in termine di utilità o inutilità. L’utile è ciò che coincide con il profitto, con il successo: l’azione efficace. D’altro canto l’efficacia, essendo definita dall’utile, coincide con ciò che il più forte ritiene giusto. In tal senso, la conoscenza rappresenta una forma di dominio in quanto legata all’ideologia egemonica del periodo. In sintesi, la tecnica è l’insieme delle pratiche che determinano un controllo sulle modalità operative al fine di renderle efficienti individuando delle regole generali che guidino l’azione. Allo stesso tempo, le tecniche instaurano una sorveglianza gerarchica fra i vari possessori del potere al fine di pianificare ed ottimizzare l’azione.[7]
Nel volume The principles of scientific management (1911) Frederick Taylor sosteneva che la massima prosperità sociale sarebbe stata raggiunta attraverso il massimo rendimento produttivo del lavoratore, realizzabile con l’interazione tra quest’ultimo e la macchina.[8] L’interazione uomo-macchina, infatti, garantiva a fronte di un investimento iniziale, una massimizzazione dei profitti. Allo stesso tempo, essa comportava la specializzazione dell’operaio in un determinato segmento della filiera produttiva e la creazione di una gerarchia capace di dirigere, cioè orientare armonicamente verso il massimo rendimento, l’attività lavorativa umana. Quest’ultima era necessariamente costretta entro delle categorie sociali (il ruolo in fabbrica, nel lavoro in generale, quindi nella società), spaziali (la fabbrica, l’area della fabbrica, ecc. Oppure: l’ospedale, l’area dell’ospedale e così via) e temporali (le ore lavorative, di riposo, i giorni di svago, ecc.). La speranza del taylorismo era quella che il lavoratore divenisse portatore egli stesso della buona disciplina non solo all’interno del luogo di lavoro, ma anche al di fuori. Di conseguenza il buon operaio e, per estensione, ogni buon lavoratore, incluso anche il «padrone», avrebbe contribuito a creare un ambiente ordinato e disciplinato la cui garanzia di buona riuscita sarebbe stata proprio il successo nel campo lavorativo del singolo. La tecnologia, aspetto essenziale ancora oggi del lavoro, necessitando di grandi investimenti, garantisce l’iniziale preminenza al possessore di capitale. [9] Il possessore, considerata la rilevanza dell’investimento, richiede la garanzia sul controllo delle vendite e delle forniture, auspicando l’identificabilità e la prevedibilità dei bisogni del consumatore.[10] Il controllo sulle vendite lo si ottiene pianificando il processo produttivo, come tenta di fare il taylorismo.[11] La pianificazione, sia dei bisogni del consumatore che della produzione, è garantita da una struttura gerarchica il cui controllo non è più del possessore del capitale, ma di chi ha acquisito la conoscenza tecnica necessaria per ottenere la massima efficienza. Non è più il possesso di capitale, quindi, a localizzare il potere ma il dominio della conoscenza che permette di acquisirlo.[12]
Secondo questa prospettiva il reale cambiamento apportato nella società dalla scienza e dalla tecnologia moderna consistette nell’istruire a fondo e in un settore limitato gruppi di persone, coordinando successivamente le competenze dei tecnici con quelle di altri soggetti specializzati, permettendo così alla tecnostruttura di realizzare la delocalizzazione delle decisioni e una sua parcellizzazione. La vocazione dei tecnici è quindi quella di ripristinare il giusto beruf in tutti i lavoratori e, così, l’armonia sociale attraverso un procedimento pedagogico che è applicabile anche al possessore di capitale che, non essendo istruito nei principi scientifici dell’organizzazione del lavoro, [13] viene estromesso dalla gestione tecnica dell’impresa assieme all’operaio.[14]
Adesso si può forse
spiegare la trasformazione che è intervenuta portando il lavoro ad essere una
fonte di libertà riassumibile nei seguenti termini: l’idea di una vita
liberamente scelta, una volta appannaggio dei ceti signorili, dediti
all’attività del non lavoro, viene rivendicata, partendo proprio dai caratteri
formali della vita percepita da tali ceti, per tutti gli individui che lavorano. Il valore etico fondamentale è
quindi la possibilità di scegliersi liberamente una vita partendo dal lavoro:
lo sviluppo legato ad esso, inteso come produzione, coincide con la libertà,
per cui il lavoro-produzione diviene il quadro utopico della società perfetta,
e la sua realizzazione la si misura nella libertà o meno del tipo di vita
condotto. Il lavoro, ora oggetto del
volere e della conoscenza umana, è foriero di una libertà definibile come del lavoro, ma che riduce la libertà nel lavoro: non più attività libera, ma
libertà dell’uomo dalle sue condizioni di scarsità, quindi di classe, con un
incremento della libertà dal lavoro. Il
lavoro è così divenuto l’origine della libertà e della definizione
dell’individuo, centro vitale di una società che da questo è definita attraverso
il pianismo, creatore di prosperità
sociale attraverso la sublimazione delle dispute per il potere interne alla
nazione in questioni tecniche di ottimizzazione, grazie all’aumento della
produttività cui avrebbe corrisposto la fine della necessità di ripartizione di
una limitata quantità di ricchezza. I principi di scientific management si configurano così sia come strumento di
stabilizzazione sia come
forza dinamica che costringe ad allargare sempre più l’area della
stabilizzazione per completare e conservare le sue realizzazioni, rendendo
necessario applicare i suoi principi all’indotto intero e soprattutto alla società.[15]
[1] Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, citato in R.H. Tawney, La religione e la genesi del capitalismo, Milano, Feltrinelli, 1967. Sul lavoro come punizione si veda l’interpretazione di Remo Bodei del mito di Prometeo in Giovanni Mari (a cura di),Libertà, sviluppo, lavoro, Milano, Mondadori, 2004, pp. 19-20.
[2] Giovanni Mari (a cura di), Libertà, sviluppo, lavoro, cit., p. 7.
[3] Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965 (prima ed. or. 1904-1905).
[4] Foucault, Sorvegliare e Punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2014 (prima ed. or. 1975), p. 237.
[5] John Kenneth Galbraith, Il nuovo stato industriale, Torino, Einaudi, 1967, pp. 54-72.
[6] Cfr. Alfredo Salsano, Ingegneri e politici, Torino, Einaudi, 1987; l’introduzione di Michel Foucault e Michelle Perrot a Panopticon, Ovvero la Casa dell’Ispezione (Jeremy Bentham), Venezia, Marsilio, 1983, pp. 25-36.
[7] Galbraith, Il nuovo stato, cit., pp. 50-70.
[8] Frederick Taylor, Principi di organizzazione scientifica del lavoro, Milano, Franco Angeli Editore, 1975, pp.11-12.
[9] Galbraith, Il nuovo stato, cit., p. 50.
[10] Salsano, Ingegneri e politici, cit.,pp. 22-23.
[11] Frederick Taylor, Principi, cit., pp.14-15.
[12] Galbraith, Il nuovo stato, cit., pp. 54-72.
[13] Frederick Taylor, Principi, cit., p. 20 e p.53.
[14] Ivi, pp. 58-59 e 122-123.
[15] Salsano, Ingegneri e politici, cit., pp. 22-120.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.