I social consentono di esprimersi sfruttando le molteplici possibilità offerte dalla comunicazione digitale. Dietro a queste forme espressive si nascondono dei meccanismi che incanalano, disciplinano e regolamentano l’attività degli utenti nei social. Dinamiche che si intrecciano con la produzione del profitto e che spesso diamo per scontate. È quindi necessario domandarsi a quale costo e con quali forme i social consentono di esprimersi. Soprattutto è necessario verificare se riconoscono i diritti o piuttosto incanalano il malcontento e gli impulsi, organizzando la massa.
Con il termine «discipline» si intende l’insieme delle tecniche volte ad incanalare le azioni umane in modo da massimizzarne ed orientarne il risultato. Le discipline rispondono a tre criteri, che sono: rendere l’esercizio del potere il meno costoso possibile; far si che gli effetti di questo potere siano portati al loro massimo ed estesi il più possibile; rendere il potere pervasivo, interno alle relazioni e insito nella molteplicità.[1]
Peculiare delle discipline moderne è la creazione di un sistema in cui la sorveglianza sia generalizzabile (cioè estendibile a tutti o quasi gli ambienti) e inverificabile. Non potendo verificare l’effettiva presenza del sorvegliante, infatti, il sorvegliato si comporterà sempre come se fosse sotto vigilanza. In questo modo il comportamento del sorvegliato muta, divenendo docile e portatore delle istanze di controllo.
Per ottenere il disciplinamento è necessario disporre di un’insieme di informazioni sul sorvegliato e possedere le capacità per trasformare l’insieme di queste informazioni in una forma di conoscenza. Il potere, in tal senso, risiede nelle informazioni e nella capacità di saperle sfruttare.
La trasformazione delle informazioni in una forma di sapere finalizzato a determinare i comportamenti degli utenti, nel caso dei social, avviene attraverso la creazione di un canone, cioè degli elementi estetici semplici e informali che guidino la pubblicazione dei contenuti sulla piattaforma e la condotta da mantenervi.
All’interno di una piattaforma social non è possibile verificare l’effettiva presenza della sorveglianza la quale è, effettivamente, intempestiva nella sua attività sanzionatoria. Sopperiscono a questa carenza gli utenti stessi che, in questo modo, sono soggetti ad un disciplinamento doppio: da un lato agiscono seguendo le regole informali e formali che regolamentano la vita all’interno dei social; dall’altro agiscono consapevoli di non potere verificare la presenza della sorveglianza. Nel primo caso adegueranno il loro comportamento e le loro pubblicazioni in base al canone vigente all’interno del social, poiché i comportamenti ritenuti offensivi o lesivi della persona possono essere segnalati dagli utenti; inoltre le pubblicazioni sono soggette ad approvazione “plebiscitaria”: più esse corrispondono al canone, più gradimenti otterranno. Conseguenza di ciò è che gli utenti saranno indotti a pubblicare solo ciò che rientra all’interno del canone. Nel secondo caso la maggior parte degli utenti, non potendo verificare l’effettiva presenza della sorveglianza, agirà come se questa vi fosse, facendo così aderire al canone i propri comportamenti.
Fermarsi a questo punto potrebbe far sorgere il dubbio che il disciplinamento indotto dai social sia una forma di repressione, cioè un’azione fondata sulla negazione di alcuni comportamenti. Se così fosse le discipline non avrebbero il successo che hanno. Ciò che ne garantisce la buona riuscita è, infatti, la capacità di indurre del piacere. Detto in altre parole, è la capacità di incanalare le pulsioni trovandogli uno sfogo a rendere le discipline vincenti.[2] Ed è questo, peraltro, il principio fondamentale del canone: lasciare un certo margine di libertà nella scelta dei contenuti e dei comportamenti, purché essi rispecchino le “indicazioni di massima” fornite dal social.
Vi è un aspetto ulteriore da tenere di conto, cioè la binarietà insita nella produzione dell’intrattenimento che è alla base del successo dei social. La piattaforma determina in linea di massima i contenuti grazie al canone, ma non li produce. Sono gli utenti ad essere i produttori dell’intrattenimento, i social forniscono l’infrastruttura che permette la realizzazione di un disegno. Con questo sistema le persone iscritte ad una piattaforma sono sia spettatori che presentatori. Gli utenti sono intrattenuti da altri utenti che esprimono il proprio gradimento in base alla conformità alle regole del canone, inducendo così l’utente presentatore a rispettare le regole. L’aspetto di essere al contempo spettatori ed attori è, per certi aspetti, rivoluzionario poiché fa si che anche una persona “normale” sia, in una certa misura, popolare.
Tutto ciò ha un vantaggio ulteriore: garantisce la massimizzazione del profitto in quanto la produzione viene delegata al consumatore stesso attraverso un sistema che non prevede, per il produttore/utente, un costo di produzione. Si tratta, in tal senso, di prodotti d’intrattenimento. Un post, ad esempio, in quanto prodotto e non opera (nel senso creativo del termine) estetizza la quotidianità di cui essa fa parte in quanto lo si ritiene trasposizione autentica della realtà, facendo così cadere la contrapposizione falso/autentico. Il post è, quindi, un assoluto in cui la relatività del punto di vista, ad esempio di una foto, viene soppiantata in nome dell’universalità data dalla testimonianza di un’esperienza.
Ulteriore aspetto di interesse legato a questo discorso è la dimensione temporale. Dovendo soddisfare il medesimo canone, i prodotti presenti sui social sono, nella forma che hanno e nelle modalità di fruizione, simili tra di loro. Per sopperire a questo problema i social basano la produzione dei contenuti sul rinnovamento continuo, sulla novità, “l’evento” costante. La produzione è stimolata al suo massimo poiché se un utente non posta dei contenuti non riceve gradimento. Perciò la dimensione temporale è presentistica, cioè fondata su un presente continuo, sull’assenza di una temporalità fondata sulle tre dimensioni della temporalità di passato, presente e futuro. Ciò che conta è il qui ed ora, cioè l’immagine o il contenuto postato “in questo momento”. La stessa modalità di fruizione dei contenuti rende bene l’idea: lo scorrere dal basso verso l’alto in un fluire costante di nuove informazioni fa si che ci si soffermi brevemente sul contenuto per passare ad altro. Il contenuto diventa così “vecchio” in un lasso di tempo molto breve. Per sopperire a questa carenza di temporalità autentica alcuni social propongono all’utente il «ricordo» cioè la possibilità di mettere in risalto, attraverso una nuova pubblicazione, un post di mesi o anni prima. In verità il “ricordo” in questione si fonda su un contenuto e non su una serie di contenuti, o una serie di ricordi, cioè non si basa su una temporalità estesa. Perciò anche il cosiddetto ricordo riproduce il presentismo: non è che un frame privo del suo contesto.
Ora, si è detto che una centralità nella dimensione temporale presente sui social ce l’ha il presente nella forma dell’evento. In verità nei social la produzione dell’intrattenimento si basa principalmente sul fatto diverso o curioso. La differenza tra fatto diverso ed evento è profonda. Fornendo un esempio il primo è la notizia di un paracadutista che atterra in un campo di calcio durante una partita interrompendola. Il paracadutista non scardina la temporalità creando un prima o un dopo in senso assoluto. Con evento, invece, si intende qualcosa che ha la forza di scardinare l’ordine temporale creando una separazione netta tra un prima e un dopo, imponendo il proprio ordine di senso. Un ordine che, in tal senso, è un meta-ordine poiché la sua essenza risiede in qualcosa che va al di là della storia stessa: la sua giustificazione è l’evento stesso. Di fronte al presentesimo latente, all’ego che fonda sé stesso, l’evento è l’elemento centrale per due motivi. Innanzitutto è l’espressione più rilevante del rifiuto della temporalità: noi fondiamo noi stessi in questo momento, all’infinito: ego fondamento del nulla; il secondo riguarda l’ansia per lo scorrere inesorabile del tempo, del suo fluire nonostante le manovre di copertura della caducità. L’evento è quell’operazione rituale – simbolica, catartica delle passioni, capace di sublimare le paure attraverso una nuova e costante fondazione in cui l’uomo si ritiene fondatore ed impositore del proprio ordine temporale.
Se ogni post ha una valenza assoluta, in quanto ogni esperienza ha valore di testimonianza universale, ciò significa che il presupposto del successo dei social è la dimensione egocentrica per cui il mondo è proiezione dell’ego. Un continuo specchiarsi in sé stessi, anche grazie alla rassicurante certezza che l’altro non uscirà al di fuori del canone e che, pertanto, se anche “io” mi mantengo nei suoi confini sarà sempre una conferma di ciò che penso sia il mio ego. Ciò, però, non significa che «ho indagato me stesso», poiché l’osservazione eraclitiana, pur fondandosi sull’indagine introspettiva, è volta alla scoperta dell’alterità, cioè alla pratica costante del vedersi con altri occhi. In tal senso i social pongono il problema dell’essere altro da sé stessi, vale a dire il problema fondamentale del conformismo. La storia, la propria storia e di conseguenza l’autorappresentazione che facciamo di noi stessi, non è intesa come analisi del passato come critica, nel significato di pratica di messa in discussione e analisi, del presente. Piuttosto è un’eterna conferma di sé stessi in un ambito e in un tempo che, pur mutando, rimangono di per sé stessi in sé stessi. Mutano senza mutare realmente, così che qualcosa per cui valga la pena vivere, nel senso di ieri oggi e domani, non c’è, ma vi è solo qualcosa nel qui ed ora.
Se anche la politica non può prescindere dai social ciò significa che cambia le sue forme di comunicazione per adattarle alle esigenze dei social, conducendo all’estetizzazione della politica. Difatti, la comunicazione all’interno dei social deve sottostare alle regole del canone che, si badi bene, è un canone estetico in cui a prevalere deve essere l’aspetto emozionale suscitato dall’immagine di ciò che si vede. Pertanto, se all’interno dei social tutto è vero perché viene reciso il legame tra falsità e verità in nome dell’autenticità di ogni esperienza, allora la verità appartiene a chi è in grado di suscitare maggiore clamore, quindi ad essere una migliore forma di intrattenimento.
Trattandosi di produzione chi ne trae profitto? In termini di guadagno, nell’accezione comune del termine, il profitto è di chi possiede la piattaforma. Un profitto estremamente massimizzato perché realizzato senza dovere assegnare un corrispettivo a chi produce le forme d’intrattenimento. Se però i produttori dell’intrattenimento non avessero nulla in cambio il meccanismo si incepperebbe. Difatti i produttori hanno un duplice guadagno immateriale: sono intrattenuti gratuitamente e possono essere loro stessi i protagonisti dell’intrattenimento – il successo degli influencer, d’altro canto, rappresenta la possibilità che ogni «persona comune» ha di diventare famoso. È, questo, un sistema che assolutizza la logica e l’etica del lavoro: nell’intrattenimento stesso vi è una forma moderna di beruf, di vocazione realizzata nel successo di un post. Non solo: se non vi è differenza alcuna tra produttore e consumatore ciò vuol dire che tutti sono lavoratori. Pertanto, considerando che non vi sono tempi rigidi di separazione tra le ore dei social e quelle “libere” l’alienazione, l’abnegazione e il disciplinamento dati dal lavoro sono portati al loro estremo, eliminando la differenza tra ciò che è lavoro e ciò che non lo è. È anche questo aspetto un carattere del presentismo perché abbatte le barriere fra distinzioni temporali, rendendo il tempo un unicum. Pertanto il soggetto, oggettivandosi nella merce (il post, il successo sui social) e in quanto “prodotto” del disciplinamento, rinuncia alla sua dimensione esistenziale divenendo egli stesso una merce.
I social riproducono i meccanismi dell’esistente, delle società e delle culture in cui sono calati. Hanno regole proprie, ma che di fatto sono regole sociali, pur se riportate su di un piano qualitativamente differente da quello del “reale”, ma che rimangono comunque ancorate a quel reale. Pertanto la critica che viene mossa ai social non è altro che una critica alla società per come è oggi.
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[1] Michel Foucault, Sorvegliare e Punire, Torino, Einaudi, 2014 (I ed. or. 1975), pp. 237-241.
[2] Michel Foucault, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, p. 13.

Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.