La ‘ndrangheta –  senza dubbio la mafia più potente in Italia – è un po’ come il vecchio Impero Romano. Conquista, assoggetta e colonizza nuovi territori. La criminalità organizzata calabrese quando si espande fuori dal proprio “orticello di dominio incontrastato” non si limita a costituire punti di riferimento individuali che possano realizzare specifici interessi criminali. Tutt’altro. Esporta la propria struttura organizzativa, il metodo mafioso e quel sistema relazionale attraverso cui è in grado, persino al dì fuori del territorio calabrese, di raggiungere imprenditori, liberi professionisti e politici. Clona le proprie strutture criminali, che tendono a colonizzare il territorio dove si espande, ricreando quelle stesse strutture di base presenti nel territorio d’origine. Da San Luca – l’enclave per eccellenza – a Milano, passando per Genova o Reggio Emilia: le ‘ndrine “contagiano” così l’intero territorio italiano. 

La colonizzazione viene facilitata da un forte fattore identitario. Per gli appartenenti al sodalizio criminale la ‘ndrangheta è un “bene comune” di tutti; c’è un forte vincolo che lega il singolo al gruppo criminale, una forte consapevolezza di essere parte di un’organizzazione con una propria soggettività criminale. E la colonizzazione procede a ritmo spedito, facilitata dalla sottovalutazione del pericolo mafioso in molte aree del nostro paese. 

Il processo che porta alla conquista di nuovi territori da parte dell’organizzazione talvolta è portato avanti da singoli individui o piccoli gruppi, ma, una volta conclusosi, cioè quando  avviene la costituzione di un nuovo insediamento ‘ndranghetista, rimangono i legami con la madrepatria. Le “nuove colonie” – per usare un’altra analogia con il mondo antico – non sono paragonabili a quelle dell’antica Grecia, dove il rapporto tra il nuovo insediamento e la città madre (“la metropoli”) era di assoluta autonomia. Bisogna prestare quindi attenzione quando si descrive la presenza della ‘ndrangheta nel Nord Italia. Corretto è parlare di nuove ‘ndrine insediatesi e di territori contaminati “dal pericoloso morbo”. Meno corretto è affermare l’esistenza di cosche indipendenti e autonome dall’organizzazione. Gli ‘ndranghetisti stessi lo capiscono meglio degli osservatori. Difficile e impensabile vedere un boss di una qualche Locale – il coordinamento che regola le diverse ‘ndrine di un territorio –  disobbedire alla “Mamma”, la Locale di San Luca. Se un ‘ndranghetista decidesse di formare una “Nuova ‘Ndrangheta Organizzata” (parafrasando Raffaele Cutolo) in Liguria o in Emilia Romagna, finirebbe ammazzato da qualche sicario che ha la residenza a Locri o Reggio Calabria. I capi delle nuove locali sviluppatesi nell’Italia Settentrionale hanno senz’altro un alto grado di autonomia nella gestione degli affari, dei traffici e dei nuovi affiliati; tuttavia non possono staccarsi dalla base di legittimità su cui poggia il loro consenso. La ‘ndrangheta è un “brand forte” nell’universo criminale e che permette la costruzione di un potere basato su due pilastri: l’esercizio della violenza e la capacità di detenere relazioni sociali. 

Il processo di colonizzazione trae quindi linfa vitale dall’immaginario creato dalla mafia più potente d’italia. Una volta, un boss calabrese intercettato mentre stava parlando con un giovane ndranghetista ebbe a dire: “Ricorda una cosa. Il mondo si divide in due: ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà”[1],


[1] Cit. in Michele Prestipino, Giuseppe Pignatone, Modelli criminali: Mafie di ieri e di oggi, Laterza, Roma, 2019.

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