1876, due giovani deputati e intellettuali presentano una relazione sulle condizioni economiche e sociali della Sicilia. Un’opera a quattro mani, che porta la firma di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, autori di un lavoro che rientra tra le più importanti inchieste sociali della storia del nostro paese. La prima parte – curata da Franchetti – contiene una profonda analisi sull’origine della mafia in Sicilia, capace ancora oggi di mantenere alcuni elementi analitici validi.
Nel suo scritto l’uomo politico toscano descriveva una classe dirigente abituata a considerare le istituzioni come uno strumento di sopraffazione, incapace di sviluppare una concezione della cosa pubblica imperniata sull’impersonalità della legge. A suo dire, per il modo tardivo e incompleto in cui era uscita dal feudalesimo, la Sicilia non era in grado di avere una concezione adeguata di governo, prevalente sul piano formale solamente a partire dal 1860, con l’imposizione di un ordine giuridico superiore (cioè quello dello Stato Italiano).
Franchetti sosteneva che in buona parte della popolazione siciliana mancava il “sentimento della legge superiore per tutti”[1]. Le relazioni sociali avevano un’indole personale e davano luogo a estese forme di clientelismo e a un’infinità di associazioni prive di regole. “Queste vaste unioni di persone d’ogni grado, d’ogni professione, d’ogni specie, che senza aver nessun legame apparente, continuo e regolatore, si trovano sempre unite a promuovere il reciproco interesse, astrazion fatta da qualunque considerazione di legge, di giustizia e di ordine pubblico: abbiamo descritto la mafia (..)”[2].
Lo scritto di Franchetti era un fulmine a ciel sereno per chi, all’epoca, era abituato ad avere della Sicilia l’immagine aulica dell’”Isola felice”. Fotografava le condizioni sociali di un’area del paese in balia della mafia, che era stata capace di sostituirsi ad uno Stato completamente assente o spesso compiacente verso un potere criminale esperto nell’agire indisturbato.
Sonnino e Franchetti, quando arrivarono a Palermo, vennero colpiti dalla “bellezza delle vie principali, dall’aspetto monumentale dei palazzi, e dall’illuminazione notturna”, scrissero che il capoluogo siciliano “presenta tutte le apparenze di un paese ricco e industrioso”[3]. Ma quando si spostarono di qualche chilometro verso l’entroterra palermitano e andarono oltre le apparenze, scoprirono una realtà preoccupante: estorsioni, rapine ed uccisioni. “A un giovane che aveva avuto l’abnegazione di dedicarsi alla fondazione e alla cura di asili infantili nei dintorni di Palermo, è stata tirata una fucilata”. La ragione? “Certe persone che dominavano le plebi di quei dintorni, temevano ch’egli, beneficando le classi povere, si acquistasse sulle popolazioni un poco dell’influenza ch’esse volevano riserbata esclusivamente a sé stesse”[4]. La mafia siciliana non permetteva che il suo consenso sociale venisse intaccato.
Dalla descrizione del fenomeno criminale offerta da Franchetti emergeva un mondo isolato ed ostile, con una propria cultura “mafiosa”, con il suo universo di regole comportamentali e di linguaggi estranei alle leggi e alle consuetudini dello Stato. L’amministrazione pubblica era “come accampata in mezzo ad una società che aveva tutti i suoi ordinamenti fondati sulla presunzione che non esistesse autorità pubblica”. Per Franchetti la mafia più che un’organizzazione criminale era però un fenomeno comportamentale; riaffermava così la supremazia del tratto culturale – “spiccatamente siciliano” – il quale renderebbe spiegabile e comprensibile il fenomeno mafioso. Così la tesi del comportamento per il giovane toscano si rivela nell’esistenza di “una classe (quella dei facinorosi n.d.r.) con industria e interessi suoi propri, una forza sociale di per sé stante”[5].
Il comportamento mafioso era capace di spiegare le solidarietà ideologiche che contro l’autorità costituita legavano i malandrini e la popolazione, ivi compresa quella classe dei proprietari (lui la definisce classe media) sulla quale, in tutta Europa, si riponeva la forza delle istituzioni liberali. L’analisi di Franchetti mostra un ruolo cruciale giocato dalle élites isolane; esse basavano il proprio potere sul controllo delle risorse locali, economiche (terreni demaniali ed ex feudi privati) e politiche (sistema elettorale nazionale e municipale).
A più di cento anni di distanza dalla sua prima pubblicazione il testo scritto da Franchetti mantiene intatto il suo interesse. Il libro può essere ritenuto un classico dell’indagine sociale italiana. L’intellettuale toscano era riuscito a cogliere alcuni fenomeni che ancora oggi caratterizzano la realtà isolana: l’incrocio pericoloso tra élites e mafia e il radicamento sul territorio dell’organizzazione criminale.
© Riproduzione riservata
[1] Leopoldo Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, introduzione di Paolo Pezzino, Donzelli, Roma, 2011, p. 7.
[2] Ibid., p. 36.
[3] Ibid., p. 5.
[4] Ibid., p. 6.
[5] Ibid., p. 91.

Cofondatore de L’Eclettico e giornalista professionista. Mille pensieri, tanta curiosità e voglia di mettersi in discussione. Scrivo, ascolto e leggo (parecchio). Mi sono laureato in Storia e ho avuto la possibilità di studiare la criminalità organizzata, tema di cui mi occupo con frequenza. Per lavoro seguo in maniera ossessiva la politica e tutto ciò che vi ruota attorno. Ogni tanto però mi concedo una pausa, qualche viaggio all’estero o in Italia. Al mio fianco ho sempre un sottofondo musicale: il rap.
Analisi interessante perché evidenzia come già la sensibilità sul fenomeno mafioso fosse esistente. Nonostante ciò all epoca si parlava di mafia rurale.
Ciao Adelio, grazie mille. Si, l’inchiesta di Franchetti conserva ancora oggi elementi e spunti molto interessanti. Un cordiale saluto Riccardo Pieroni