Il voto di giovedì scorso nel Regno Unito ha sancito il trionfo dei conservatori guidati da Boris Johnson. Un voto che sembra aver legittimato le istanze anti-europeiste, populiste e, più in generale, critiche della globalizzazione. Un voto che, più che riguardare temi e programmi, è stato un referendum sul remain o sul leave in cui Johnson ha vinto sia per l’esasperazione di tre anni e mezzo di trattative infruttuose sia perché unico punto di riferimento saldo, capace di mantenere la propria posizione sulla Brexit invariata. Una vittoria, quella dei Tories, avvenuta anche con la promessa di costruire una salda relazione commerciale con Washington, che magari includa anche Tokyo, e con il rafforzamento dei legami commerciali all’interno del Commonwealth, progetti la cui realizzazione non è affatto scontata e che nelle intenzioni di Johnson dovrebbero garantire un ritorno al primato britannico nel mondo. Make Britain great again.
Ma questo voto mostra molte altre cose, soprattutto sul contesto internazionale in cui si collocano e di cui sono, al momento, l’espressione più concreta e visibile delle loro massime conseguenze.
Innanzitutto il voto mette in crisi l’assunto che l’Unione Europea avrebbe svolto la funzione di camera di decompressione sui rigurgiti nazionalisti, assunto entrato in crisi perlomeno dall’insorgere della crisi catalana. Dagli anni Novanta in poi l’UE è stata effettivamente una camera di decompressione nei confronti di molti movimenti indipendentistici, come quello basco, e di istanze nazionaliste potenzialmente esplosive, si pensi a ciò che è accaduto in ex – Yugoslavia rispetto al crollo “ordinato” delle democrazie socialiste in Est Europa che sin da subito furono integrate nella costruzione dell’Unione Europea. Ad oggi la funzione di decompressione sembra essere venuta meno perché è decaduto l’afflato integrazionista, federalista e la stessa narrativa di creazione di un progetto di una casa comune con il fallimento nel 2005 della Costituzione Europea. Già in questo caso due referendum, quello francese e poi quello olandese, promossi da governi in crisi di consensi, quindi con necessità dettate dalla politica interna, frenarono il processo di integrazione. Le radici erano anche allora nel crescente divario tra le città capaci di godere dei benefici dell’integrazione e della globalizzazione rispetto alla periferia, dove questi benefici arrivano meno. Un problema, quindi, di allocazione delle risorse che trova nelle discussioni presenti negli Stati Uniti e nel Regno Unito sulla sanità e, quindi, sul modello di welfare da adottare, il suo corollario. Divario tra città e periferia, tra risorse e vantaggi di un mondo interconnesso che trovano nella retorica di uomini forti, con programmi decisi e con dei capri espiatori, per Johnson l’UE, per Corbyn certe élite, che forniscono soluzioni chiare nelle loro dichiarazioni ma non nella strategia per raggiungerle – ed è questa, potremo dire, gran parte della sfida al populismo. Un problema non solo britannico o statunitense ma anche francese perché le proteste dei gilets jaunes riguardavano il divario tra città e periferie, in cui nelle prime viene allocata gran parte delle risorse destinate al welfare e ai servizi ed in cui i benefici dell’apertura all’esterno sono più facilmente tangibili.
Nell’incertezza di una situazione in cui si ridefiniscono i poteri e gli equilibri globali, in cui sembra che il cambiamento sia così incessante da non garantire un’identità, si è così portati ad accettare le promesse di un ritorno al passato, non necessariamente aureo ma conosciuto e pertanto rassicurante, di presunte identità nazionali e capacità autarchiche di far fronte alle avversità rispetto alle soluzioni incarnate dall’Europa o delle istituzioni internazionali che queste soluzioni non sembrano in grado di offrirle, anche a causa dei limiti imposti dai referendum del 2006 alle istituzioni europee.
Diverse sono, poi, le lezioni che possiamo apprendere da questo voto, come diverse sono le considerazioni che è possibile fare. La constatazione, innanzitutto, che la divisione dell’elettorato non sia solo geografica, ma anche generazionale non appare più così netta. Diversamente dal 2016 quando molti giovani rimasero a casa, a questa tornata elettorale molti sono stati gli under 35 che sono andati a votare per il remain. La divisione è quindi tra i giovani che godono e sfruttano i benefici dell’integrazione, abituati a vivere in un contesto più globale e che tale contesto vogliono mantenere. Ciononostante la geografia elettorale rivela che non tutti i giovani erano favorevoli al remain perché non necessariamente tutti gli under 35 beneficiano dei vantaggi dell’integrazione. Altra considerazione può riguardare la disinformazione e le fake news, che anche in questo contesto un ruolo lo hanno avuto e che continuano ad essere un problema reale per le nostre democrazie. Non da ultimo un pensiero dovrebbe essere rivolto alla indecisa e implicitamente brexiter gestione di Jeremy Corbyn. Se è vero che il voto di giovedì non è stato necessariamente un voto sull’agenda radicale promossa dal leader del Labour e che il red wall non è detto che sia finito nelle mani dei Tories due conseguenze possono essere tratte. La prima riguarda le ragioni del voto: Corbyn ha sbagliato a credere di potere vincere promuovendo un’agenda radicale. Il suo errore è stato credere di potere promuovere un secondo referendum sulla Brexit “tappando” il malcontento della classe operaia del red wall, che in questi anni si è sentita abbandonata dalla classe politica di Londra e che con la decisione di Corbyn ha trovato conferma nei propri sentimenti, con un programma radicale che avrebbe dovuto favorire la loro condizione. La Brexit, unico vero tema di queste elezioni, è infatti il catalizzatore del malcontento delle classi periferiche, subalterne ai benefici dell’integrazione, che sentono di essere stati abbandonati dalla politica e che credono che la loro opinione non sia presa seriamente. Johnson ha avuto l’abilità di sapere intercettare questo malcontento canalizzandolo su un unico obiettivo: l’uscita dall’Unione Europea.
Poco importa a queste classi se Johnson appartiene a quel partito che più di tutte le ha affamate: ciò che nel contesto Euro-Atlantico appare sempre più rilevante è la lotta per la visibilità canalizzata in un singolo tema. L’errore, quindi, non è nel programma radicale in sé per sé, ma nell’avere ritenuto che questo potesse fungere da catalizzatore antagonista alla Brexit capace di intercettare il malcontento delle classi che si sentono escluse. Un dubbio ulteriore dovrebbe riguardare la legittimazione della Brexit stessa: la vittoria di Johnson è dovuta principalmente alla divisione dei suoi oppositori (se si sommano i voti dei Tories con quelli dei Brexit Party non si ha la metà dell’elettorato). Individuare soluzioni di compromesso anziché promuovere soluzioni radicali potrebbe aiutare la sinistra, non solo britannica, a ritrovare la vittoria.
La seconda considerazione riguarda il contesto internazionale, perché la crisi di visibilità delle classi suddette è anche una crisi di visibilità internazionale, dovuta ad un problema che riguarda questa dimensione: la globalizzazione e il vuoto di una classe politica incapace di offrire a livello europeo una visione più inclusiva dell’integrazione al posto di chi vorrebbe distruggerla.
Una riflessione dovrebbe vertere, inoltre, sul futuro dell’Unione Europea. Anche in questo caso le riflessioni potrebbero essere molteplici, partendo dalla necessità della classe politica europea di dare una svolta realmente federalista al processo di integrazione che conduca, nel più breve tempo possibile, ad un’Europa che sia veramente tale. Seguono le considerazioni sul divario crescente tra ricchi, classe media e poveri, le difficoltà del welfare di aiutare tutti e la crisi tra centro e periferia, argomenti cui ancora non sembra esserci una risposta che sia non solo tale, ma anche calata nel contesto più ampio e pertanto realmente efficace. Non da ultimo la Brexit potrebbe essere un esempio, in alcuni casi addirittura una minaccia adita da qualche Stato commissariato, per altre istanze indipendentistiche, con pericolosi revival nazionalistici anche esplosivi, non solo in Irlanda del Nord o in Scozia, ma anche nel cuore dell’Europa. Quest’ultima, inoltre, potrebbe sfruttare l’uscita del Regno Unito per rafforzare il proprio peso internazionale, a patto che l’asse franco-tedesco funzioni e che sia in grado di includere paesi come l’Italia che, nel loro ottuso campanilismo, si autoescludono dai grandi progetti di difesa europei, come la costruzione del caccia di sesta generazione promosso da Spagna, Germania e Francia, preferendo il progetto Tempest in partnership con il Regno Unito. Rafforzamento che non è quindi scontato e che l’uscita della Gran Bretagna potrebbe ulteriormente mettere in crisi.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.