Era prevedibile, è un tratto saliente dei difensori della giustizia nostrana quello di schierarsi a priori strumentalizzando partigianamente ciò che accade nel mondo, in questo caso la crisi tra Stati Uniti e Iran.

Parossistiche rappresentazioni di Donald Trump e degli Stati Uniti, infatti, vengono sia da sinistra che da destra: nel primo caso si bolla il drone strike che ha ucciso il generale Suleimani come un atto imperialista, barbaro, che conferma l’ignoranza e la malafede statunitense; nel secondo si è subito pronti ad accogliere felicemente lo strike, elogiando l’operato del presidente americano. In entrambi i casi nessuno si sofferma ad analizzare il contesto che viene invece strumentalizzato per confermare alla propria base di essere dalla parte giusta dell’umanità.

Assistiamo così a sommari processi il cui unico interesse è quello di individuare il colpevole prima ancora di avere identificato le reciproche responsabilità, in cui si chiamano in causa le “colpe storiche” degli Stati Uniti, come se gli americani di oggi dovessero scontare gli errori dei propri nonni e dei propri padri, ammesso che di errori si tratti.

Rappresentazioni che celano la volontà di volere ignorare ciò che è accaduto negli ultimi mesi e anni in Medio Oriente e negli Stati Uniti – rappresentazioni che svelano come spesso gli stessi detrattori credano nel mito dell’eccezionalismo americano, finendo per criticare gli Stati Uniti per ciò che non sono ma che invece dovrebbero essere.             

Di reciproche responsabilità, anziché ricerca del colpevole, dovremo quindi occuparci.

L’Iran, come gli Stati Uniti, non è infatti esente da colpe. È vero che la decisione di Trump di uscire dal Trattato sul nucleare del 2015, smantellando così un tassello ulteriore dell’eredità Obama, può certamente aver contribuito ad alimentare questo clima di tensione crescente anche in nome della strategia cui l’attuale presidente si richiama. Strategia che si basa sulla convinzione che con il regime iraniano non si tratta e non si dialoga perché il confronto è a somma zero a causa della natura dell’avversario, il che conduce all’ineluttabilità del conflitto che, si guardi bene, non è necessariamente armato o comunque di confronto diretto tra i due paesi. Se tutto ciò è vero, è vero altrettanto che in diplomazia gli strumenti a disposizione di uno Stato sono molteplici e non obbligano ad accogliere le provocazioni. Teheran avrebbe potuto proseguire sul solco del Trattato del 2015, boicottando la decisione statunitense di uscire dal trattato assieme all’Europa, alla Cina e alle Russia. Niente di tutto questo è stato fatto: il governo iraniano ha deciso di rispondere alzando i toni, concretizzando azioni di sabotaggio fuori confine e di supporto alle milizie filo-iraniane sparse per tutto il Medio Oriente – come la fornitura di armi a missili ad Hamas ed Hezbollah – il sequestro delle due petroliere, con l’intervento dei pasdaran, nello stretto di Hormuz, consapevole di alzare la tensione nell’area – area che, è bene ricordarlo, ricade sotto la Dottrina Carter e che, pertanto, da una parziale fonte di legittimazione all’azione presidenziale; ancora, è cronaca delle ultime settimane, gli attacchi a installazioni dove operano contractors e soldati americani attraverso delle milizie filo iraniane e l’assedio all’ambasciata americana a Bagdad. Che Suleimani fosse dietro alla maggior parte di queste operazioni è noto, era il suo ruolo, e che pertanto anch’egli non sia esente da colpe è fuor di dubbio. D’altro canto è bene considerare anche il fatto che la questione iraniana è una delle tante questioni poste o comunque nate nel corso della Guerra Fredda e che sono irrisolte. La rivoluzione khomeinista del 1979 che ha portato all’instaurazione del regime teocratico attuale in Iran si legittimò anche ricorrendo alla retorica antiamericana e antioccidentale. Tutt’oggi il governo iraniano trae molta della sua legittimazione e dell’unità dall’individuazione di un nemico esterno: gli Stati Uniti. Dopo più di quarant’anni di indottrinamento del popolo in tal senso, che la situazione potesse precipitare, necessitando di trovare uno sfogo, era un’evenienza. D’altro canto, alzare il livello dello scontro da parte dell’Iran è funzionale a ricompattare l’opinione pubblica in un momento caratterizzato da divisioni e forti proteste, con numerosi morti e feriti e la chiusura di internet in tutto il paese. Rianimare l’odio verso il nemico aiuta quindi a risolvere una questione interna. L’Iran, che è un regime in cui vige la pena capitale, in cui le donne non godono della parità, in cui i ricercatori delle università straniere vengono imprigionati, non è quindi esente da colpe.

L’eredità della Guerra Fredda, d’altro canto, emerge anche nei sondaggi sul tasso di popolarità dell’Iran negli Stati Uniti (molto basso) e nei tweet del presidente che minaccia di colpire, in caso di ritorsione da parte di Teheran, 52 obiettivi iraniani: cinquantadue era il numero degli ostaggi americani detenuti in seguito alla rivoluzione del 1979. Le responsabilità di Trump, comunque, sono molteplici. Di fronte al Congresso e alle unità di intelligence e militari, innanzitutto, poiché nessuno di questi è stato avvertito: il drone strike che ha ucciso il generale Suleimani è stato infatti deciso ed ordinato dal presidente in autonomia, il che riapre il dibattito sulla limitazione dei poteri di guerra del presidente, anche con l’introduzione della risoluzione per obbligare Trump a passare dal Congresso per ogni azione successiva di guerra con l’Iran. L’altra responsabilità riguarda il sospetto che il presidente abbia agito come ha agito anche in funzione della politica elettorale e dell’impeachment: come nel caso iraniano, compattare l’elettorato e distrarlo dall’impeachment attraverso il nemico è funzionale, come del resto la morte di Suleimani è ben spendibile nelle prossime elezioni presidenziali. Si può, inoltre, imputare a Trump di avere sottovalutato le conseguenze della propria azione, visto che oltretutto l’uccisione di Suleimani ha minato ancor più la legittimazione degli Stati Uniti in Iraq, ma ulteriori considerazioni sono necessarie. Queste si basano sulla constatazione di una certa coerenza nelle parole e nelle modalità di azione dell’attuale presidente degli Stati Uniti. Egli non è nuovo a decisioni repentine ed individuali, che scardinano la prassi politica. Non solo: sin dal suo insediamento alla Casa Bianca Trump non ha fatto mistero di volere aumentare la tensione nei confronti dell’Iran nella convinzione di potere, in questo modo, risolvere l’annosa questione – la nomina di John Bolton come Consigliere per la sicurezza nazionale era figlia di questa visione. In tal senso Trump ha sempre esplicitato di essere disponibile a ricorrere alla forza. Il drone strike si colloca quindi all’interno di questa continuità e può quindi essere letto come un atto di coerenza. Non solo: aumentare la tensione può servire a ricompattare il fronte degli alleati mediorientali. In una lettura diversa da quella del proprio predecessore, Trump ha deciso di puntare sin da subito nel rafforzamento dei legami con gli storici alleati statunitensi in Medio Oriente: Egitto, Israele, Arabia Saudita –  esplicativa, in tal senso, la foto che ritrae il presidente egiziano al- Sisi, Trump, il re Salman dell’Arabia Saudita e Melania toccare un globo terrestre illuminato di bianco. Alzare la tensione con l’Iran e con l’Iraq può servire a ricompattare il fronte e a spingere gli alleati ad intervenire maggiormente nel quadro geopolitico mediorientale. Ciò non sarebbe privo di senso poiché molte questioni in Medio Oriente, dopo la quasi scomparsa di ISIS e la fine della guerra in Siria, rimangono. Queste questioni riguardano conflitti in corso, come quello yemenita, altri che potrebbero scoppiare, come quello tra Libano ed Israele, ma in generale si collocano nel lungo e ampio scontro tra sciiti e sunniti, rappresentati da Iran e Arabia Saudita, e soprattutto si collocano in un ambito di ridefinizione degli equilibri in cui le due medio potenze regionali di Riad e Teheran si sfidano, portando con se una sfida che riguarda anche il confronto tra Stati Uniti, Russia, Turchia e, in parte minore alcuni paesi europei come la Francia e non europei come la Cina. Il Medio Oriente è, d’altro canto, non solo un’area estremamente eterogenea dove l’identità cultural-religiosa conta, ma è soprattutto un’area geopoliticamente rilevante e pertanto contesa. Dalle risorse idriche del lago di Tiberiade ai pozzi di petrolio del Kurdistan iracheno e dei sauditi, alla cerniera tra Occidente ed Oriente, dagli stretti ai canali da cui passa gran parte del greggio e del commercio globale, terra di scontro ideologico ed identitarie sul tipo di politica e modernità ritenuta più giusta, il Medio Oriente difficilmente sarà un’area pacificata nel breve e medio periodo. Proprio quest’aspetto di crudo realismo dovrebbe far riflettere i giudici dell’umanità perché in esso si celano tante di quelle contraddizioni che rendono difficile prendere una posizione netta. La balcanizzazione di gran parte dell’area MENA (Middle East and North Africa) è in parte legata, come detto, all’espansionismo delle medio potenze regionali, come la Russia, l’Iran, l’Arabia Saudita e la Turchia. Fino ad oggi molti commentatori hanno spiegato determinati interventi e conflitti come una contesa riguardante la ridefinizione degli equilibri in cui paesi come la Russia o la Turchia cercavano “solamente” di riguadagnare delle zone o dei porti storicamente sotto il loro controllo – che ciò non venga definito “imperialismo” con la stessa facilità con cui questa categoria è usata nei confronti degli Stati Uniti da parte dei difensori dell’umanità è esplicativo della natura partigiana di certe querelle. Ciò che sfugge è che in questo gioco di ridefinizione degli equilibri gli interessi di queste medio potenze possono diventare divergenti, determinando un’escalation che condurrebbe ad un possibile conflitto. Tale conflitto è già presente in Siria, in Yemen e in Libia nella forma della guerra per procura, vale a dire la forma che con più facilità assumono i conflitti tra potenze e medio potenze onde evitare ancor più pericolosi confronti diretti – da che parte stare in questo caso? Dalla parte di un conflitto per procura che ci coinvolge in maniera minore e che non coinvolge, soprattutto, in maniera diretta delle potenze nucleari, oppure dalla parte dello scontro diretto, visto che la diplomazia ha fallito? Tali conflitti per procura, comunque, possono deflagrare in guerre che coinvolgono le medio potenze e le potenze in maniera diretta: la crisi tra Iran e Stati Uniti è un esempio di questa possibilità. Se la spirale dovesse continuare a svolgersi e questa escalation finire in un conflitto essa chiamerebbe in causa gli alleati dei due paesi, in un effetto domino che vedrebbe coinvolto gran parte del Medio Oriente.

Essere alleati, comunque, non implica necessariamente che tutti gli interessi siano convergenti: l’appoggio della Francia ad Haftar in Libia e quello a Sarraj da parte dell’Italia lo mostra chiaramente. Ciò che si nasconde dietro a questa divergenza è la possibilità che anche tra questi due paesi possa nascere un conflitto, o comunque uno scontro: l’esempio, in questo caso, è rappresentato dal rigurgito di nazionalismo sciovinista italiano quando l’anno scorso Di Battista accusò la Francia di essere ancora una potenza coloniale in nome del Franco CFA, accusa che portò ad una gravissima e senza precedenti crisi diplomatica tra Roma e Parigi l’anno scorso. Il mostro del nazionalismo è ancora in agguato e forte, assieme alla mistificazione della storia che consente ai nazionalismi, ai presidenti americani e ai regimi come quello iraniano, capaci di chiamare in causa perfino Genghis Khan, di giocare a questo rischioso gioco in cui anche noi europei siamo coinvolti.

Se già questo quadro intricato e complesso non fosse sufficiente a mettere in dubbio le convinzioni dei difensori dell’umanità nostrani si potrebbe loro domandare che cosa essi reputino essere morale o, comunque, giusto e quindi difendibile.

Evitare un conflitto tra Stati Uniti ed Iran è certamente qualcosa di auspicabile. D’altro canto la fine di un regime come quello iraniano non lo è altrettanto? – anche se, effettivamente, si può ben discutere di quale sia il mezzo migliore per raggiungere questo scopo. Se si difende un astratto principio di umanità, perché non difendere le donne, i ricercatori, gli oppositori politici e i condannati a morte in Iran? Che cosa è più giusto, evitare uno scontro e lasciare che un regime continui a perpetrarsi, o lasciare che questo regime continui a vessare il proprio popolo e a sfruttare le tensioni medio orientali?

L’indignazione dei difensori dell’umanità altro non è che frutto della malafede di chi, in  base ad un presupposto egocentrico, ritiene di essere dalla parte giusta dell’umanità. Nei loro discorsi non c’è la volontà di comprendere le cose come realmente stanno e di aiutare, così, chi vive in Medio Oriente a non dover più subire le angherie della guerra o dei loro regimi. La scelta è già stata fatta: quella di erigersi a tribunale dell’umanità. Non si indignano per ciò che accade in Medio Oriente, si indignano per avere qualcosa che confermi loro di essere dalla parte giusta della storia, che nasconda la loro malafede la quale consente all’ingiustizia di perpetrarsi. Ma che cosa è giusto e che cosa è ingiusto se non ciò che, in nome di ciò che accomuna l’umanità e che è quindi l’unico valore, la vita nelle sua condizione assurda, difende questo valore? E che cosa ne rappresenta una difesa?

Domande a cui il tribunale dell’umanità non ha ancora risposto, preferendo emettere veloci e partigiane sentenze.

Quadro di copertina: David Gilmour Blythe, Lawyer Exhorting Jury.

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