Grigio era il cielo e presto lo sarebbe stato anche il nostro animo, sommerso di nuovi dubbi, di esistenze sradicate dalla loro vite che pesavano fortemente sul nostro cuore. Era freddo quel giorno. Un freddo tremendo: eravamo vestiti pesanti, con i giacconi da sci e le calzamaglie sotto i pantaloni. Ma non era sufficiente. Pensavi subito, in mezzo a quella distesa di neve intervallata da blocchi grigi, costruzioni in muratura arancione, fili spinati e torrette, a quanto freddo dovessero aver avuto gli internati ad Auschwitz – Birkenau, alle malattie contratte per essere costretti a vestire stracci di tela biancastra e celestina, con una stella gialla o altri simboli a dire che cosa erano ma non chi fossero sul cuore. Ciabatte di legno ai piedi per i più fortunati e forse un cappellino. Bambini soli che arrancavano nella melma, persone sole e spersonalizzate che affogavano negli escrementi: perché ad Auschwitz – Birkenau le latrine erano come lunghi e profondi abbeveratoi per le mucche, ma di cemento, dove scivolare dentro e morirvi affogati era cosa facile. Sembra strano da dire oggi, ma fu così. I dormitori, che di luoghi per dormire avevano solo un paio di assi di legno gettate per lungo, dell’intimità di una stanza da letto, del necessario conforto che può darti una coperta nel momento di massima vulnerabilità neanche l’ombra. Le docce, luoghi così asettici ed impersonali, come i forni: metallici contenitori di corpi ammucchiati che oggi non vedi ma che percepisci nella tragicità dell’atmosfera. La reclusione, la chiusura per isolarli dall’esterno a causa di un’ideologia che predica purezza razziale tradendo la vita. La spersonalizzazione: la morte è l’aspetto che colpisce di più, ma prima c’è il dovere vivere nel campo. Vivere nel campo è essere privati della facoltà di essere un individuo. La banalità del male è anche questo: la facile possibilità di trasformarsi in carnefici perché è sufficiente voltare lo sguardo e dire «tu non esisti» per far sì che io non sia più una persona, ma una cosa o un oggetto, «una pulce», «uno scarafaggio». Eliminare la personalità rende più facile uccidere milioni di persone: chiunque, a quel punto, può essere partecipe del massacro. L’indifferenza.

L’organizzazione scientifica, simile ai principi del lavoro che governano le fabbriche, ciò che sta dietro alla razionalità nazista che organizzò i campi di sterminio. La Shoah non fu una barbarie nel senso letterale del termine. Barbarie è qualcosa che rimanda ad uno stato primitivo, animalesco. È necessario comprendere, studiando, che la Shoah fu qualcosa di lucido, scientifico nella sua organizzazione, saturo di elementi che troviamo nella nostra quotidianità e sui luoghi di lavoro. Non è un elogio al nazismo, tutt’altro: è l’invito a non etichettarlo come «geniale» o come «barbaro», a seconda degli schieramenti. Sarebbe riduzionismo e, pertanto, malafede volta alla non comprensione della storia. Perché il nazismo ha una storia alle sua spalle, come i campi avevano delle regole che permettevano il loro funzionamento: nel caos sei milioni di ebrei non sarebbero stati assassinati. È necessario comprenderlo, capendo quanto sia facile al giorno d’oggi che ciò che è successo sia di nuovo, per far sì che la Shoah ed ogni altro genocidio non si ripetano.

Stereotipi, pregiudizi, ignorare come atto deliberato del non volere sapere, di non volere informarsi, preferendo la giustizia sommaria della diceria e della chiacchiera equivoca che eleva così facilmente, e così brutalmente, un uomo al di sopra della massa, rendendo quella massa succube ma spensierata perché privata del dovere riflettere sulle cose. La falsità del ritenersi al di sopra della vita, la malafede dell’affermare che anche una radice sia volontà di potenza e di dominio nel tentativo di strappare dalla terra l’energia vitale, nello sforzo che premia solo il più forte.

L’uomo è ciò che si fa ed è quindi legislatore di sé stesso e degli altri: ho bisogno dell’altro come l’altro ha bisogno di me per esistere. Uccidere un altro uomo è uccidere me stesso. Non è astratta umanità, un astratto valore, è il riconoscimento della comunione della condizione in cui ogni uomo è gettato: l’esistenza come essere qui, ora, in una situazione che posso solo in parte determinare e in cui sono grazie all’altro che fa sì che possa essere, perché se non mi rispecchiassi in lui non sarei, e lui non sarebbe. È la capacità di dire: «tu sei», ma non sei come me. Sei alterità, ed è giusto che tu sia alterità, perché l’uomo sa che non può colmare quel baratro che lo separa da ogni altro uomo a causa dell’incomprensione se non comprendendo d’essere nella sua medesima condizione.

Eravamo il Treno della Memoria della Regione Toscana del 2011. Accompagnati dai superstiti che, lungo il viaggio, in quei luoghi e nelle conferenze ci spiegavano e ci raccontavano la Shoah, che cosa avevano vissuto e che cosa avevano sofferto. «Mio fratello fu portato nell’edificio del dottore». C’è un edificio ad Auschwitz, come ve ne erano in altri campi, dove dottori sadici torturavano i prigionieri e gli ebrei, cercando di “studiare” fino a che punto un uomo potesse reggere il dolore prima di svenire o di morire, in cui provavano a fare “esperimenti” indicibili. «Mio fratello venne appeso ad un gancio per maiali. Sentivo le urla da fuori. Poi gli venne aperta una ferita all’altezza del femore e lì gli infilarono un bastone di ferro lungo come la gamba».

Racconti come questi squarciavano l’esistenza di noi ragazzi di quinta liceo, facendoci comprendere che cosa fosse stato, rendendoci testimoni della Shoah. Chi ha preso parte al Treno della Memoria ha infatti, nelle parole dei sopravvissuti, raccolto la loro eredità e la loro responsabilità. Siamo noi, noi che abbiamo avuto la fortuna di potere sapere da quelle anziane persone con un tatuaggio sul braccio, che oggi e domani dovremo raccontare, studiare, informarci e mantenere viva la consapevolezza di ciò che è accaduto per far si che non sia di nuovo. Responsabilità cui non è facile essere all’altezza, ma di cui sento personalmente l’impegno, pur domandandomi quanto, in questi anni di studi storici, ne sia stato all’altezza.

È stata una fortuna prendere parte al Treno della Memoria, esperienza che viene messa in dubbio da chi sostiene che sia partigiana perché lo stesso treno non si ferma nei luoghi dell’Holomodor o delle foibe. Chi afferma queste falsità sa benissimo di essere tendenzioso. Innanzitutto il Treno della Memoria è un’esperienza che non riguarda soltanto la Shoah, ma che attraverso essa mira a sensibilizzare, educare e responsabilizzare i giovani di fronte a qualunque atto di deliberata violenza volta alla sistematica eliminazione di etnie, gruppi politici e via dicendo. In secondo luogo il Treno della Memoria non è partigiano perché è la memoria della Shoah a non essere partigiana. Affermare il contrario è avvallare implicitamente le tesi di chi sostiene che essa fu tutta una montatura. Sarebbe sufficiente studiare e far studiare la razionalità dietro i disegni nazisti per far comprendere a questi delinquenti quanto invece l’Olocausto sia stato, e continui ad essere nella sua possibilità essenziale, una realtà. Infine, violenze staliniste e foibe sono esperienze storiche differenti. Creare confusione, sovrapponendo come se ogni cosa fosse uguale a sé stessa è un’azione che rafforza gli stereotipi e i pregiudizi dando spazio all’ignoranza. È un atto politico che volutamente oscura la storia riscrivendola. È un atto politico che volutamente nobilita antisemitismo, razzismo, odio verso il diverso, verso chi la pensa in maniera differente. La premessa è necessaria perché una citofonata diventi il pretesto per la giustizia sommaria e popolare in cui il capo politico si erge al di sopra delle istituzioni, divenendo egli stesso legislatore, giudice ed esecutore. La premessa perché tutto questo si ripeta. Come lo è, del resto, sostenere che l’antisemitismo non è qualcosa di italiano, ma qualcosa che hanno portato gli immigrati o qualcosa che riguarda chi è antisionista. Antisionismo è un movimento politico contrario allo Stato di Israele, il che non implica l’odio verso gli ebrei, ma una critica ad un’ideale politico. Essere antisionisti non necessariamente è essere antisemiti: creare confusione tra le due cose è, anche in questo caso, cascare nel tranello che consente all’antisemitismo di prosperare.

I dati sull’antisemitismo, le violenze e le discriminazioni ad esso legate così come gli atti di vandalismo verso i luoghi di culto ebraici o legati alla memoria sono in aumento, non solo in Italia ma anche in Europa e nel resto del mondo. A Parigi, nell’inverno 2018, nel centro universitario di Tolbiac allora occupato l’aula messa a disposizione dell’Unione degli studenti ebrei francesi (UEJF) venne saccheggiata e imbrattata con scritte antisemite e antisioniste. L’anziana signora Mirelle Knoll, ebrea scampata al nazismo, venne picchiata ed arsa viva da un gruppo di antisemiti di destra. Negli Stati Uniti, in Germania, nel Regno Unito, ovunque intorno a noi e nelle nostre città vediamo crescere l’odio verso gli ebrei. Un problema che riguarda sia la destra che la sinistra, perché la storia e la presenza dell’antisemitismo è radicata in entrambi gli schieramenti.

Si tratta, però, di crescita, non di rinascita.

V’è un grosso problema con una certa narrazione che sostiene che l’antisemitismo stia rinascendo, come le ultradestre o destre estreme. L’antisemitismo non sta rinascendo, non era stato debellato: rimaneva nella società, tra di noi, solo che non ci facevamo caso. E così, nell’indifferenza, grazie alle parole di chi sosteneva che era un problema superato, adagiandoci in false e pretestuose convinzioni, abbiamo lasciato che gli antisemiti aumentassero fino al punto in cui l’antisemitismo è cresciuto al punto in cui siamo. L’antisemitismo ha una storia molto lunga e complessa, è radicato nelle culture e nelle società e pertanto non è qualcosa che può essere sradicato facilmente, nemmeno in ottant’anni. Anche perché ciò che lo ha reso possibile assieme alla Shoah permea ancora la nostra quotidianità.

Oggi non è più solo vigilare. Oggi più che mai è raccontare, resistere, contrastare: obbligo morale cui nessuno può sottrarsi perché l’indifferenza di uno è la complicità di molti, la quale è a sua volta consenso di fronte all’assassinio e all’esclusione.  

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