Essere di sinistra oggi significa riappropriarsi della questione del lavoro. Non solo risemantizzare e ripensare il lavoro concettualmente, ma ricollocarlo al centro dello sforzo idealistico. La sinistra ha infatti perso gran parte della sua identità quando ha smesso di occuparsi della questione del lavoro con lo sguardo che la contraddiceva: critico, consapevole del passato per dare slancio all’impazienza del presente per il futuro. Perché nella questione del lavoro si intrecciano la maggior parte dei nodi e delle contraddizioni.
L’ascesa della borghesia nella prima modernità fece del lavoro il centro della propria ideologia, fonte di legittimazione nei confronti dei ceti che sul non essere produttivi fondavano il proprio potere politico. Il lavoro divenne ambito di contesa ideologica, di potere e quindi di collocazione sociale, ma anche etica di una classe, la borghesia, e poi di tutta la società: dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei. Si arrivò così al lavoro come ambito di contesa tra una borghesia ormai in ascesa e i lavoratori che non si collocavano in questa classe sociale: operai, contadini, impiegati sotto pagati, corrieri, e via dicendo. Ciò che un tempo era definito proletariato ma che oggi è una categoria ben più ampia.
La narrazione ideologica sul lavoro: costruisce intorno a sé non solo una patina di fascino, ma una sua glorificazione tale da divenire il centro della vita di ognuno, unico o principale luogo della realizzazione personale, chiave di accesso per una vita che tutti possono raggiungere attraverso l’impegno. Il beruf, la realizzazione della vocazione, appunto. Se un tempo il lavoro era necessario anche in ragione della sussistenza, l’affermazione lavorare per vivere appare quindi oggi più equilibrata di vivere per lavorare perché quest’ultima racchiude in sé tutta l’alienazione che una società interamente fondata sul lavoro porta con sé.
Alienazione: dalla nascita alla vecchiaia ciò verso cui si focalizzano gran parte dei nostri sforzi è il lavoro. L’utilitarismo non premia l’attività inutile, quella cioè del pensiero al di fuori delle logiche di potere. Piuttosto, l’utilitarismo premia ciò che ha un fine che viene identificato con ciò che è giusto il quale coincide, pur se velatamente, con l’utile del più forte cioè l’ideologia del lavoro stessa. L’apparenza di una società giusta, tendente al bene, assorbe e concentra sulla propria ideologia gli sforzi e le speranze di ogni classe sociale. Una società totale in cui l’alienazione e la definizione del proprio sé coinvolgono anche l’alta borghesia che per essere tale sacrifica la propria vita al successo lavorativo, simbolo della propria vocazione realizzata, chiave di accesso ad un benessere materiale che altrimenti non avrebbe ma che allo stesso tempo non può godersi pienamente. La dimensione stessa dello studio, un tempo fondata sul sapere, costruisce sé stessa sulla conoscenza, cioè sull’insieme di nozioni volte a parcellizzare il sapere, a disperderlo e dividerlo, creando una classe omogenea e diffusa di tecnici che rinunciano alla globalità del sapere, alla sua inutilità. L’inutile è ciò che il potere definisce come tale, pertanto è spesso identificato come il pericoloso, il sovversivo. Sapere è potere perché è la capacità, nonostante la mancanza di conoscenza di ogni dettaglio o particolare, di comprendere le cose nella loro globalità: è l’arte del pensare in quanto tale, del riflettere senza necessariamente produrre profitto. La logica del lavoro necessita che ognuno scelga una formazione, non un pensiero. Formarsi, studiare, per avere un lavoro. Una formazione sempre più classista perché alza l’asticella senza le adeguate tutele sociali: il master, strumento che dovrebbe facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro perché crea dei professionisti, cioè degli esperti, che rispondono a determinate competenze e richieste, ma che pertanto sono sempre più simili tra di loro. L’istruzione si lega sempre più ad un canone preciso in base alla professionalizzazione, alla specializzazione.
Le asimmetrie di genere si rispecchiano sul lavoro: la possibilità di andare in pensione prima, per le donne, si lega all’accettazione di una minore retribuzione mensile dovuta ai congedi per maternità. La paternità, là dove prevista, è solo una parentesi che cela la convinzione che occuparsi dei figli sia una questione femminile. E si potrebbe andare avanti. Il lavoro, che cela lo sfruttamento dei migranti, contribuendo a mantenere l’assenza di canali che incanalino i flussi migratori: dal Sud dei raccoglitori di pomodori al centro – nord dei venditori ambulanti, costretti a fare un mestiere privi di tutele, sotto qualunque intemperie, riproponendo così una forma che nella collocazione geografica dei migranti e nella loro occupazione assomiglia alle asimmetrie post coloniali.
Il lavoro è anche una questione di unità. Le sfide che esso pone non riguardano solo uno Stato, come l’Italia, né hanno origine nello spazio ristretto dei confini: sono intersezionali e internazionali. Solamente con l’unione e l’abbattimento delle barriere statuali, creando soggetti forti, transnazionali, capaci realmente di combattere contro il potere, la sinistra acquisirà forza. L’unità del popolo è sempre stata un concetto astratto e foriero di scontri. Che cosa è il popolo e che cosa non lo è? Chi ne fa parte e chi no? È il lavoro a deciderlo perché definisce il posto di ognuno all’interno della comunità nazionale. La nazione, intesa come corpo unico, è una menzogna funzionale al sistema lavoro. La libertà, intesa come possibilità di fare, di portare a compimento le idee, passa anche da questi canali. Una multinazionale può avere lo stesso PIL dell’Italia: come può, quindi, l’Italia riuscire a regolamentare i servizi offerti dalla multinazionale e a garantire standard e tutele ai consumatori, tenendo di conto che la fedeltà dei consumatori tende più verso il fornitore di lusso accessibile che verso lo Stato? Le multinazionali, infatti, sviluppano una narrazione che pervade i loro prodotti, ammantandoli non solo di fascino, trasgressione o sicurezza, ma ne fanno un simbolo di status: possedere una marca dice chi sei, cioè indica il grado di ricchezza, quindi il successo sul lavoro. Lusso accessibile, perché tutti, seguendo l’etica giusta e compiendo dei sacrifici, possono raggiungerlo. Il prodotto porta con sé tutta una serie di benefici: la garanzia della privacy, perché la bontà del fornitore non è mai messa in dubbio, è integerrima; l’appartenenza ad una comunità materiale che si fonda sul possesso di un oggetto, quindi la fedeltà a questa comunità; sapere chi si è in base al grado di successo raggiunto; mostrare e dimostrare di essere all’interno di un canone. Alienazione e conformismo vanno di pari passo. D’altro canto il conformismo stesso è necessario al lavoro. Lavoratori indipendenti, nel senso intellettuale del termine, non sono una garanzia né alla pace sociale né del rispetto dei principi scientifici del lavoro.
Conformarsi, seguire un canone, delle regole etiche e scientifiche che garantiscono il successo lavorativo e che consentono di ottenere il lusso accessibile. Ciò accantona il discorso sulla redistribuzione dei redditi, sull’equità e il diritto a vivere senza dovere lavorare per vivere e vivere per lavorare, sulla parità e i diritti di ciascuno. Perché tutto questo non è necessario in quanto ciò che serve è realizzarsi lavorando a discapito delle condizioni. Nuove scappatoie, nuove professioni sono state trovate, come i riders e i corrieri, e non sono più coperte dalle conquiste sindacali. D’altro canto i sindacati difendono principalmente i pensionati e non si aprono alle nuove professioni. E così l’ideologia del lavoro avanza pretese, chiede che il tempo del lavoro sia fluido e flessibile perché così il lavoratore, si dice, avrà più libertà e potrà meglio realizzarsi, nascondendo che ciò non è altro che un’espansione dei tempi e degli spazi del lavoro, che così diventano permeanti la vita nella sua totalità. Si arriva alla questione del tempo, un tempo privo di narrazione perché ciò che conta è il qui ed ora, luogo della realizzazione o momentanea transizione verso la futura realizzazione. Il tempo che come espansione del lavoro assorbe, senza scampo, la vita dell’individuo che per essere tale deve mantenere determinati standard seguendo così orari massacranti, sempre meno definiti, continuamente disponibile, pronto a tornare a lavoro, perché il lavoro lo segue anche a casa, anche in campagna o al mare sullo smartphone. Chi appartiene alle nuove categorie, quelle dei lavoratori indipendenti cui spesso viene detto che sono «i propri datori di lavoro», è chi di tutele non ne ha più: le otto ore sono considerate un miraggio, non ci sono sindacati né associazioni di mestiere. La classe lavoratrice viene divisa in nome della necessità. Necessità di realizzazione lavorativa, necessità di profitto e necessità, per il lavoratore, di mantenere il proprio posto di lavoro e guadagnare sufficientemente. Non c’è più tempo per l’unità né per la speranza.
Il lavoro è tutt’altro che una questione definita ma è, allo stesso tempo, il centro dell’ideologia della nostra società: esso la definisce e definisce la vita di ognuno di noi. Non è nichilismo in sé per sé, perché nulla nasce nel nulla e muore nel nulla. Difatti, tutto nasce nel lavoro e finisce nel lavoro: è alienazione, sudditanza ad un’idea, dunque nichilismo. La sinistra ha abbandonato la contesa sul lavoro, rinunciando a difendere chi subisce le ingiustizie e a lottare per avere un mondo migliore, non in nome di una astratta ed insopportabile umanità, ma in nome di maggiore equità, di difesa della vita nella sua pienezza, e non di difesa della vita in nome di un’ideologia, che sia quella del lavoro o di qualcosa d’altro. È anche il problema di una certa classe intellettuale e dirigente, ostinatamente arroccata nelle sue convinzioni e nello studio dei soliti punti di riferimento e degli stessi argomenti solamente perché essi offrono una conferma alle loro certezze e non per lo studio del passato che dia forma all’impazienza del presente per il futuro – che è il dramma grande della sinistra oggi, quello dell’assenza di una direzione, del sapere chi si è, come si è e verso dove si va. Questa classe non ambisce a collocarsi come punto di riferimento per il nuovo, per una svolta, ma preferisce rimanere ferma dove è – ma questo non è solo un problema della sinistra, ma generale – proponendo cambiamenti apparenti ma di sostanziale immobilismo.
Essere di sinistra oggi non è guardare ad un nostalgico quanto indefinito e rassicurante passato in nome di un’identità che non è mai stata così poco unitaria in quanto così poco consapevole. Come non è sufficiente dichiararsi antifascisti, anti razzisti e in favore dei diritti civili: tutto ciò dovrebbe essere un panorama di valori comune, non solo della sinistra ma della società intera, cui la sinistra vi approda nonostante il dato comune, nella consapevolezza che non si può non essere dalla parte di chi subisce l’ingiustizia in nome di una consapevole specificità sulla difesa dell’argomento. Una difesa che non sacrifichi l’oggi in nome di un’utopica umanità futura. E del resto non è sufficiente andare in piazza alla ricerca del tempo perduto o per ciò che l’oggi vorremo che fosse ma che non riusciamo a definire se non sulla base di pochi punti cardinali. Andare in piazza dovrebbe essere un atto intenzionale che si fonda sull’essere presenti in nome della necessità di colmare un vuoto qui, ora e per il domani nella consapevolezza di scopi. Essere di sinistra oggi è quotidianità consapevole del rapporto tra locale e globale, lavoro incessante di rinnovamento ed autocritica di fronte al mutare delle situazioni.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.
Un articolo letto tutto di un fiato. Un articolo vero, crudo e serio. Finalmente, Un Articolo, con le maiuscole in cui si analizzano seriamente le problematiche di una Sinistra più pallida che mai.
Grazie per il tuo contributo, da storica a storico.