Dopo la vittoria in Nevada, Bernie Sanders sembra ormai avviarsi alla conquista della nomination democratica. Il futuro degli Stati Uniti sarà dunque socialista?
Guardando Indietro (1888) è il titolo di un romanzo utopico di Edward Bellamy ambientato negli Stati Uniti del 2000 divenuti un paese socialista. Secondo il romanzo nel ventunesimo secolo l’industria e la produzione statunitensi vengono nazionalizzate e, quindi, socializzate ed ogni cittadino gode dei benefici di questa nuova società, che peraltro ha praticamente eliminato la criminalità. Ascoltando alcuni commentatori, anche tra le fila di Bernie, sembra che gli Stati Uniti con Sanders si avviino su questa strada – ed in parte lui stesso, definendosi «socialista» sembra alimentare quest’immagine.
La verità è però un’altra: gli Stati Uniti, infatti, non stanno per diventare una repubblica socialista.
Partiamo dai dati elettorali, i quali ci sottolineano almeno tre cose: le debolezze di Sanders che potrebbero pregiudicargli la nomination democratica e la vittoria alle presidenziali, cioè la possibilità di una contested convention (Sanders non raggiunge il 50% dei voti necessari per assicurarsi la nomination e quindi dovrà decidere il partito); oppure la probabilità che Trump riesca a vincere per una serie di fattori strutturali e contingenti.
La vittoria di Sanders in Nevada la si deve molto ai giovani e agli ispanici, anche se per la prima volta è riuscito ad erodere voti alla middle e lower class che ci si aspettava esprimesse la propria preferenza – come del resto tendenzialmente è stato – il suo voto verso Joe Biden e l’ala “centrista” del partito. Escludendo quindi gli over 65, in Nevada Sanders è primo in ogni gruppo di età e in ogni minoranza – anche se il numero maggiore dei delegati va a Joe Biden per il sistema di assegnazione. Una vittoria notevole, quella di Sanders, anche perché è riuscita a superare il veto posto sulla sua candidatura dal potente sindacato della Culinary Workers Union. A questo, comunque, va sommata l’incertezza presente nel partito: gran parte dell’elettorato democratico è ancora diviso su chi dare il voto tra Biden, Buttigieg, Warren e Klobuchar e questo, appunto, rischia di danneggiare anche una candidatura presidenziale. Dei campanelli di allarme, quindi, sono presenti. A questi possiamo aggiungere la bassa partecipazione al voto soprattutto (e ciò stupisce) tra ispanici e giovani rispetto al 2016. Il limite di Sanders, in tal senso, è proprio la dove invece vorrebbe avere un punto di forza: trasformare il grande entusiasmo dei militanti in partecipazione al voto. Vi è anche un problema di genere: in Nevada il voto maschile e femminile per Sanders sono divisi da uno scarto di quasi dieci punti (38-30). Un problema incombente non solo per la questione in sé, ma anche perché il voto femminile rappresenta gran parte dell’elettorato attivo democratico, come insegnano le vittorie di Obama nel 2008 e nel 2012 e le midterm del 2018.
Questo il contesto elettorale che, per l’appunto, non garantisce una vittoria certa di Sanders alle presidenziali –e forse anche nella conquista della nomination democratica. A ciò sono necessarie altre considerazioni che non lasciano certo presupporre che una volta eletto Sanders si comporti come ci si aspetti da un socialista nel senso più letterale del termine. Innanzitutto su molte questioni Sanders non è così distante dal Partito democratico, anzi spesso le ricalca. Prendiamo ad esempio la politica estera in base ad un questionario posto dal The New York Times ai candidati alle primarie. Pur nelle sue peculiarità che pongono i diritti umani al centro della sua visione e il ricorso all’uso della forza come ultima chance, Sanders si è detto favorevole al suo utilizzo per proteggere le vite del popolo americano – in linea, ad esempio, con Biden che, nello stesso questionario, ha espresso una posizione simile. Sarebbe favorevole anche all’intervento dell’esercito per arginare o fermare una crisi umanitaria – su questo il consenso è trasversale tra tutti i candidati. Forse ancora più sorprendente, Sanders si è detto favorevole all’uso della forza per prevenire un test nucleare o missilistico iraniano o nord coreano – solo Warren e Klobuchar si sono detti sfavorevoli. Riguardo la politica estera con la Corea del Nord, alla domanda se avesse proseguito nella diplomazia personale intrapresa da Trump sia Warren che Sanders hanno risposto affermativamente – Sanders, comunque, propone l’eliminazione delle sanzioni alla Corea del Nord graduale e parallela allo smantellamento degli impianti per il nucleare. Per quel che concerne l’esercito, e anche questa posizione può forse stupire chi in Sanders vede un possibile presidente sfavorevole in assoluto all’impiego delle truppe statunitensi all’estero, non è favorevole al ritiro delle truppe dalla Corea del Sud. Proseguendo nella politica estera Sanders vorrebbe reinserirsi nella strada intrapresa da Obama, quindi vorrebbe far rientrare gli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare con l’Iran, lavorando con gli alleati – esattamente come l’ultimo inquilino democratico della Casa Bianca ha fatto. Riguardo Israele, forse le sorprese saranno più grandi: Sanders, infatti, non è contrario ad Israele ma al movimento Boycott, Divestment, Sanctions (BDS), è favorevole a mantenere il livello corrente di aiuti militari – pur condizionandoli ai progressi per fermare l’occupazione di alcune terre e andare verso un accordo di pace con i palestinesi. Inoltre non pensa di spostare la capitale da Gerusalemme a Tel Aviv, a meno che Israele non minacci di far saltare i colloqui di pace con i palestinesi. Sanders è un politico che, anche in questi anni trascorsi al Senato, ha promosso battaglie e risoluzioni in difesa dei diritti umani, che non a caso è un aspetto centrale della sua politica estera. Anzi, alla domanda su quale dovesse essere la priorità principale per il suo possibile Segretario di Stato ha risposto che gli Stati Uniti dovrebbero condurre (letteralmente: «US must lead the world») il mondo al miglioramento della cooperazione internazionale individuando sfide comuni. C’è una continuità con un ruolo degli Stati Uniti come guida, consapevoli della propria posizione, che ha radici ben profonde nel Partito democratico e negli Stati Uniti in generale; e c’è continuità anche sulla politica di linkage che sembra suggerire Sanders per cui i progressi nel campo dei diritti umani diventano fondamentali per avere gli aiuti dagli Stati Uniti – una strategia che già Clinton adottò durante la sua presidenza nei confronti della Cina. Certo, Sanders ha comunque delle peculiarità in politica estera e nell’uso dell’esercito, su cui si pone in linea con buona parte dell’elettorato, e delle posizioni su alcuni temi meno nette rispetto a molti membri del Partito democratico, che non vanno analizzate superficialmente e che non vanno sottovalutate.
Secondo alcuni commentatori Sanders sarebbe un pragmatico, il che può suonare come un’offesa ma invece ne rappresenta un pregio in quanto gli consente di essere in grado di costruire ampie e trasversali coalizioni e politiche bipartisan. Del resto è così che è riuscito a conquistarsi l’elezione in Vermont, a far passare alcune risoluzioni in Senato, e a lavorare alla legge bipartisan con McCain per la riforma del sistema di assistenza sanitaria ai veterani che prevede l’osteggiata private option. Né in passato, durante la presidenza Obama, ha espresso un marcato diniego per le politiche dell’allora presidente, votando anzi a favore per ogni pezzo della legislazione obamiana, dall’Affordable Care Act alla Dodd-Frank.
D’altro canto appare difficile che riesca a sovvertire radicalmente le politiche statunitensi perché è altamente improbabile che al Congresso i numeri si rovescino in modo da garantire la maggioranza ai democratici. In tal senso Sanders, come spesso accade e come molti altri candidati, esprime delle idee che difficilmente troveranno una realizzazione nella loro forma pura, dovendo scontrarsi con la necessità del compromesso.
Come ha notato l’economista Paul Krugman, Sanders appare più vicino al modello social-democratico nord europeo, ben lungi quindi dall’essere un socialista nel senso più “duro” del termine. In una recente intervista a 60 minutes ad esempio ha esposto il suo piano per l’assistenza pediatrica e l’asilo per i bambini che dovranno essere entrambi gratuiti – argomento che per noi europei rientra all’interno del welfare – in linea con le premesse di Medicare for All.
Per finanziare queste proposte e altri programmi di investimento pubblico che creino lavoro ridando respiro all’economia Sanders propone di tassare maggiormente ricchi e super ricchi e di aumentare il deficit. In questo, come ammette lui stesso, si vede in linea con Franklin Delano Roosevelt (che certamente socialista non era) e con il New Deal – ma che il modello di riferimento sia quello del welfare capitalism è cosa risaputa. Anche Obama aveva accettato di usare fondi pubblici per rilanciare l’economia, così come promosse, riuscendo a farle approvare, leggi che limitassero il potere della finanza (Dodd-Franck Act). La situazione è diversa da quella del passato e proporre aumenti del deficit per stimolare l’economia e aiutare chi è svantaggiato è fortemente auspicabile ma è anche qualcosa a cui approcciarsi con cautela visto che il deficit sfiora oggi il 5%.
È indubbio che la candidatura di Sanders abbia degli elementi di forte novità, come è indubbio che stia contribuendo a sdoganare molti importanti temi – alcuni dei quali, come il Green New Deal auspicabili –su cui troppo a lungo si è preferito non sbilanciarsi. Ciò che però non deve sfuggire è che se Sanders può fare queste proposte parte del merito è anche dell’eredità Obama anche perché non tutte le sue proposte di Sanders sono così radicalmente diverse da quelle del Partito. Infine, la candidatura di Sanders pone nuovamente di fronte all’evidenza di come il secolo lungo americano, nei termini del confronto con la repubblica socialista per eccellenza, l’URSS, sia cambiato.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.