Con il progressivo affermarsi di Bernie Sanders nelle primarie democratiche, nonostante la sconfitta al Super Tuesday, come uno dei principali front runner si sente spesso parlare di socialismo in America con stupore, quasi come se la storia avesse giocato un tiro mancino a Werner Sombart. A dire la verità c’è chi più di molti altri potrebbe meritarsi l’appellativo di “socialista”, anche se l’avrebbe intesa in maniera molto più radicale rispetto a Sanders: Woody Guthrie.

Il famoso titolo del libro di Sombart Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo (1906) ha tratto in inganno molti lettori dando luogo ad una vulgata secondo la quale negli States non ci sarebbero partiti o movimenti socialisti. In verità la questione è un’altra – anche se non è possibile analizzarla approfonditamente in questa sede – cioè: perché negli Stati Uniti non c’è (stato) un partito o un movimento socialista di massa? Molte sono le risposte che, brevemente, possono essere date. Innanzitutto la decisione del Socialist Party of America di schierarsi contro l’ingresso nella Prima Guerra Mondiale nel 1917; in secondo luogo l’approssimarsi, nello stesso anno, del «secolo lungo americano», vale a dire l’inizio del confronto tra Stati Uniti e l’allora Russia rivoluzionaria, poi URSS, per la definizione di modernità e ordine globale.

Padre musicale di artisti come Bob Dylan e Bruce Springsteen, Woody Guthrie è considerato uno dei più importanti, se non il più importante, esponente della musica folk americana. I suoi libri e la sua musica continuano ad essere un punto di riferimento e ad influenzare molti artisti, alcuni dei quali apparentemente inaspettati come Tom Morello, il chitarrista dei Rage Against the Machine.

Guthrie continua quindi ad essere un importante punto di riferimento all’interno della cultura e della musica statunitense, nonostante egli sia stato un membro del Partito Comunista. Ciò è possibile perché può accadere che i contenuti di un’opera, o l’artista stesso, subiscano un processo di selezione che talvolta può portare a fraintendimenti, reinterpretazioni e strumentalizzati. Woody Guthrie e la sua opera non rappresentano in tal senso un’eccezione. Numerosi, ad esempio, sono stati gli usi politici dell’opera di Guthrie, spesso in maniera distorta e non sempre in linea con il pensiero politico del folk singer come quando nel 1988 George H.W. Bush utilizzò la celebre This Land Is Your Land (1944) per la sua campagna presidenziale. Riguardo This Land è necessario aggiungere un dettaglio di non scarsa rilevanza, cioè l’esistenza di due versioni di questa canzone: una con alcuni versi contro la proprietà privata, un’altra che invece non li ha, come quella che venne usata da Bush. Proprio per evitare simili inconvenienti una delle figlie di Guthrie, Nora, ha intrapreso una causa legale che è appena giunta a conclusione stabilendo che This Land Is Your Land appartiene alla famiglia Guthrie la quale può scegliere se accordarne o no l’uso a terzi

Woody Guthrie nacque nel 1912 in Oklahoma, uno stato del Sud fortemente segregazionista e razzista. Il padre, Charlie, aveva seguito le orme paterne investendo, inizialmente, in piccoli ranch per poi decidere di seguire il proprio spirito imprenditoriale cercando fortuna nei mestieri più disparati, tra cui quello dello speculatore terriero.[1] La classe di provenienza di Woody, quindi, non apparteneva a quei gruppi sociali di cui canterà durante la sua carriera musicale, come i piccoli agricoltori del Sud – Ovest che a causa delle Dust Bowl e della Grande Depressione emigrarono verso l’Ovest, oppure gli operai. Quella della sua famiglia era una classe agiata, perlomeno fino alla malattia della madre. Charlie, inoltre era un membro del Ku-Klux-Klan e, con molta probabilità, nel 1911 prese parte ad un linciaggio particolarmente violento ad Okemah ai danni di una famiglia afroamericana. Che cosa pensasse Woody Guthrie riguardo la linea del colore è una questione complessa, perché perlomeno fino al 1937 non esitava a cantare canzoni razziste alla radio come Run, Nigger, Run di Uncle Dave Macon. Proprio in reazione a questo pezzo un ascoltatore afroamericano scrisse una lettera a Woody il quale, molto colpito, la lesse in diretta scusandosi per le sue parole. Da questo momento in poi Guthrie sarà sempre più impegnato nella lotta per i diritti civili, denunciando anche il razzismo nei confronti dei migranti del sud-ovest, gli Oakies come quelli raffigurati in The Grapes of Wrath (Furore, 1939) di John Steinbeck.[2] Un elemento di discontinuità ancora più forte di Charlie rispetto a suo figlio Woody era il suo fervente antisocialismo. Eletto rappresentante per il suo distretto nel 1910 per il Partito democratico, infatti, Charlie Guthrie nel 1911 pubblicò un testo sarcastico contro i socialisti, Fixed Aim of Socialism.

Il sostegno attivo di Woody Guthrie al Communist Party of America (CPUSA) e alle cause sindacali è quindi frutto di una presa di coscienza del cantautore che lo portò ad un senso di appartenenza di classe diverso da quello di provenienza.

Il termine classe può però risultare poco chiaro considerando i vari gruppi sociali cui Guthrie dedicò la sua attenzione. Nella sua opera, infatti, i soggetti principali verso cui si focalizzò il suo impegno artistico e politico appartenevano a strati sociali diversi, ma effettivamente per lui parte di un unico grande gruppo sociale: quello dei lavoratori sfruttati. Negli anni Trenta al centro dell’opera di Woody stavano gli Oakies, per i quali scrisse canzoni stupende come Pastures of Plentys(1941); con l’approssimarsi della Seconda Guerra Mondiale Guthrie concentrò la sua attenzione sulla lotta al nazi-fascismo, cercando così di dare il proprio contributo ideologico nella speranza di un avvenire migliore; nel secondo dopoguerra furono invece soprattutto gli afroamericani al centro della sua attenzione.

Il fil rouge di tutta la sua opera è però la speranza e la fiducia nella classe dei lavoratori che si trasforma in lotta attiva per trasformare il presente in nome di un futuro migliore, ma di come questo futuro debba essere poco sappiamo perché Woody non scende nei dettagli se non definendolo come «unionized world»[3], cioè un mondo sindacalizzato.

I lavoratori e il loro sfruttamento sono quindi al centro degli impegni di Guthrie ma non tanto per la sua aderenza al CPUSA – che era dovuta al fatto che l’ideologia e il Partito erano da lui ritenuti i migliori interlocutori a livello politico – quanto piuttosto in nome di un sindacalismo appassionato, unico vero mezzo che egli  identifica come capace di aggregare le masse lavoratrici stemperando le diverse istanze presenti nella classe, organizzandole e riuscendo così a portarle verso «un futuro destinato alla gloria». Il sindacato dunque, sia per l’idealismo che veicola che nella sua forma organizzativa, è il vero punto di riferimento di Woody Guthrie. Non a caso egli partecipò attivamente con la propria musica agli eventi da organizzati dai sindacati, come le proteste, gli scioperi e le marce – soprattutto per il Congress of Industrial Organizations (CIO) che aveva tra le sue fila molti comunisti che vi erano confluiti dopo lo scioglimento nel 1934 della Trade Union Unity League (TUUL). Ciò non deve però stupire: se Guthrie infatti è padre musicale di Dylan e Springsteen, Joe Hill e il sindacato radicale degli Industrial Workers of the World (IWW) lo furono per Woody.[4]

Gli Wobblies, come talvolta erano chiamati, nacquero a Chicago nel 1905 ed avevano tra i propri fondatori personaggi di spicco come la sindacalista Mother Jones o Eugene Victor Debs, candidato tra il 1900 e il 1920 per cinque volte alle presidenziali per il Partito Socialista. Per l’epoca gli IWW erano un sindacato letteralmente rivoluzionario: erano infatti gli unici ad organizzare i lavoratori non specializzati, le donne, gli afroamericani e gli immigrati. Soprattutto erano i più radicali: essi infatti attribuivano un ruolo di avanguardia alla classe operaia in linea con la dottrina marxista. In particolare  gli IWW rivoluzionarono il modo di fare sindacalismo introducendo per primi storie, satire, disegni, fumetti e canzoni che facevano appello alla realtà quotidiana, pubblicando un libretto di canzoni operaie che sarà fondamentale per la storia della musica folk americana: il Little Red Songbook(1909), il cui principale compositore era Joe Hill. Immigrato dalla Svezia nel 1902, Hill svolse molti lavori viaggiando per gli Stati Uniti come hobo, cioè una persona che sceglie di viaggiare mantenendosi con lavori occasionali;nel 1910 si iscrisse agli IWW, iniziando a partecipare attivamente anche agli scioperi. Nel 1915 venne condannato alla fucilazione, su base fortemente indiziaria, per omicidio nello Utah, condanna che provocò una battaglia internazionale per impedirne l’esecuzione e in cui per ben due volte intervenne anche il Presidente Wilson – che invece non concesse la grazia a Debs nel 1918, all’epoca in carcere per la propaganda contro l’intervento statunitense nella Prima Guerra Mondiale. Hill venne fucilato il 19 novembre del 1915, in una lettera che scrisse poco prima di morire si trova la sua famosa citazione «Don’t mourn for me: organize!». Non piangete, non lamentatevi per me: organizzatevi. Era questa l’essenza degli IWW e di Joe Hill, l’organizzazione in nome di una lotta qui ed ora che emerge anche nella famosissima canzone The Preacher and the Slave (1911, conosciuta anche come Pie in the Sky)  che a differenza di altre canzoni popolari pone l’accento sul problema del rimandare la conquista di ciò che si vuole ribaltandone i termini sostenendo che non si può aspettare per avere la propria fetta di torta. È una ballata intrisa di ottimismo che, per l’appunto, si fonda sulla fiducia nella lotta dei lavoratori. E non a caso Woody Guthrie riprenderà questi temi incanalandoli in delle canzoni che, come le definì Alan Lomax, sono «hard hitting songs for hard-hit people», cioè canzoni che colpiscono duramente per persone che sono colpite duramente.

 […] I sing songs that people made up to help them to do more work, to get somewhere in this old world, to fall in love and to get married and to have kids and to have trade unions and to have the right to speak out your mind about how to make this old world a little bit better place to work in. […] I hate a song that makes you think that you’re not any good. I hate a song that makes you think that you are just born to lose. Bound to lose. […]. Songs that run you down or songs that poke fun at you on account of your bad luck or hard traveling.[5]

Offrire un punto di uscita, una speranza, nella capacità di unirsi ed organizzarsi dicendo «non sei solo, siamo tanti», cantare dei problemi della propria classe seguendo una struttura apparentemente semplice che, nel racconto della quotidianità in cui tutti possono immedesimarsi, esprime verità più profonde e che si vogliono universali. Tutto questo lo si ritrova nella musica di Bob Dylan e Bruce Springsteen, i quali proseguono sulle orme di Woody Guthrie in nome di un idealismo privo di illusioni sul presente, senza però nascondere il suo comunismo – Springsteen, ad esempio, cantò assieme a Pete Seeger This Land Is Your Land nella versione con i versi contro la proprietà privata nel 2009  per l’inaugurazione della presidenza Obama. Chissà se con la nuova legittimazione dei «socialisti» anche il socialismo di Woody non venga riabilitato.


[1] Per la biografia e l’analisi delle opere di Woody Guthrie si rimanda in particolare a Joe Klein, Woody Guthrie: a Life, New York, Delta Book, 1999 e a Will Kaufman, Woody Guthrie. American Radical, Champaign, University of Illinois Press, 2015.

[2] Martin Butler, Voices of the down and out: the dust bowl migration and the great depression in the song of Woody Guthrie, Heidelberg, Universitatsverlag Winter, 2007.

[3] Woody Guthrie (Edited By Robert Shelton), Born to Win, New York, MacMillan, 1967, p. 90.

[4] Sugli IWW e i sindacati statunitensi in generale si veda: Renato Musto, Gli I.W.W. e il Movimento Operaio Americano (storia e documenti 1905-1914), Napoli,Thèléme cooperativa, 1975 e Melvyn Dubofsky, Foster Rhea Dulles, Labor in America: A History, Wheeling, Harlan Davidson Inc, 2010.

[5] Woody Guthrie (Edited By Robert Shelton), Born to Win, New York, Collier Books, 1967, pp. 222-223.

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