Migliaia di profughi siriani al confine tra Grecia e Turchia ostaggio di questi governi e malvessati dalle polizie poste alle frontiere. Migliaia di feriti ad Hong Kong per l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia nel sedare le proteste; centinaia di abusi e stupri compiuti dalla polizia e l’esercito cileno per «punire le manifestanti»; le conseguenze sempre più pesanti della guerra per i civili in Siria: scarso è stato il sostegno, insufficienti sono state le campagne dell’opinione pubblica per chi, come in questi casi, ha visto e vede i propri diritti minacciati. Pressoché assenti sono stati i boicottaggi alla Cina sia per la questione di Hong Kong che per la repressione degli Uiguri; i report di Amnesty International e organizzazioni simili sono oggetto di pochi. È questo il quadro della forza e dell’impegno dell’opinione pubblica globale nella difesa dei diritti umani. Un quadro che stride rispetto al passato, quando tra gli anni Sessanta e Novanta del Novecento il tema dei diritti umani si era affermato nel dibattito pubblico internazionale anche grazie alla nascita e allo sviluppo di movimenti, campagne, organizzazioni transnazionali capaci di avere una reale influenza nel contesto internazionale. Di fatto, l’opinione pubblica era divenuta un importante fattore nelle dinamiche internazionali, conquistandosi una propria capacità di agency riuscendo, effettivamente, ad influenzare positivamente determinate situazioni.[1]

Nella storia moderna e contemporanea vi è stato un grande proliferare di “diritti” e tutt’oggi si tende a confondere le varie accezioni del termine. Con «diritti dell’uomo» intendendo le libertà individuali e l’uguaglianza di fronte alla legge; con «diritti del cittadino» mi riferisco ai diritti politici legati all’appartenenza ad una nazione; con «diritti umani», i diritti che si occupano di soggetti che vogliono o possono rivendicare qualcosa di cui si sentono ingiustamente privati e che implicano la reciprocità (diritto/dovere); con «azione umanitaria» intendo invece un’azione dell’opinione pubblica o delle organizzazioni umanitarie ed internazionali rivolta a soggetti passivi che vogliono essere protetti e aiutati e che implica, da parte di chi agisce, un impulso morale più che un obiettivo giuridico; con «opinione pubblica» intendo la presa di posizione su un argomento di una parte consistente, o comunque un numero sufficiente, di persone tale da imporre la propria rilevanza – per comodità intenderò con questa espressione sia l’azione strutturata ed organizzata di associazioni come Médecins sans frontières sia l’azione individuale non necessariamente coinvolta in questo tipo di organizzazioni, per quanto spesso si intreccino e siano comunque soggetti diversi.

È soprattutto negli anni Duemila che si assiste ad una progressivo affievolirsi della capacità di agency dell’opinione pubblica internazionale, eccezion fatta per l’attuale movimento contro il cambiamento climatico. Le mobilitazioni e le azioni in difesa dei diritti umani sono spesso estemporanee, di minore portata e di minore capacità di influenzare l’andamento delle relazioni internazionali. Si concentrano su tematiche che non riguardano necessariamente i diritti, ma che ad essi possono ricollegarsi, e focalizzandosi su problemi contingenti per i più (ad esempio il clima), anziché astratti o comunque meno visibili perché più lontani, come fu ad esempio il boicottaggio della Nike tra fine anni Novanta e primi Duemila.

Molte spiegazioni possono essere offerte poiché molteplici sono le cause di questa crisi.

Il sistema internazionale ricerca la stabilità. Per farlo tende a sfogare le crisi e le tensioni tra gli Stati in zone periferiche e a cercare di mantenere la situazione geopolitica invariata. Questa potrebbe essere una spiegazione, ma a mio avviso parzialmente sufficiente. È vero che le dinamiche internazionali possono impedire l’affermazione o il riconoscimento dei diritti, si pensi ad esempio al caso Regeni; è vero anche che può rivelarsi rischioso appoggiare un cambiamento di regime. La repressione cinese degli Uiguri o dei manifestanti ad Hong Kong viene condannata dalla maggior parte degli Stati occidentali e dalle organizzazioni per i diritti, ciò nonostante Pechino continua la sua azione non perché, o perlomeno non tanto perché, è una potenza, ma perché se altri Stati intervenissero potrebbe mutare l’equilibrio internazionale, non necessariamente in favore della stabilità. In tal senso andare oltre l’azione di condanna può diventare rischioso. Questo sistema non è però infallibile e i cittadini degli Stati che vengono ritenuti liberi e democratici, la cui opinione pubblica dovrebbe quindi essere forte e con una notevole capacità di agency, potrebbero effettivamente spingere per cambiare le cose. Innanzitutto facendo pressione sui propri governi affinché intraprendano azioni realmente concrete contro il paese al centro dell’attenzione. La cosa può funzionare perché i meccanismi di pressione interna ad uno Stato possono portare instabilità all’interno di questo stesso Stato, il che porterebbe i governi ad agire per arginare la crisi, presumibilmente, essendo democrazie, assecondando le richieste del movimento, non da ultimo per una questione elettorale. In secondo luogo la capacità di mobilitarsi di cui disponiamo al giorno d’oggi è realmente transnazionale grazie al web e ai social: in tal senso le organizzazioni internazionali, o le reti informali come quelle per il clima, possono contribuire a cambiare le cose. Infine l’economia: la paralisi di un settore economico o di un prodotto attraverso il boicottaggio può spingere ad un cambiamento, e qui torna nuovamente l’esempio del boicottaggio della Nike.

Se tutto ciò non avviene e assistiamo alla crisi del ruolo dell’opinione pubblica mondiale è perché non si ha più un quadro comune in cui collocare, affinché si possa orientare il proprio sforzo, le rivendicazioni riguardanti i diritti, perché sono i diritti stessi, nella loro universalità e nella loro possibilità di essere difesi (che è cosa ben diversa dall’esportazione della democrazia) ad essere in una crisi di legittimità. Non da ultimo le contraddizioni cui si è spesso assistito attraverso quella che può essere definita come una politica di due pesi e due misure: per determinati Stati il boicottaggio viene messo in atto: è il caso, ad esempio, di Israele con il movimento Boycott, Divestment and Sanctions (BDS), per altri come l’Arabia Saudita e l’Egitto, in cui la condizione dei diritti è pessima, invece si assiste alla pressoché totale assenza di movimenti di pressione efficaci. Ciò perché certe battaglie sono divenute ormai baluardi identitarie su cui si concentrano la maggior parte delle rivendicazioni, a differenza di altri contesti che passano così in secondo piano. Non da ultimo un problema di rilievo è quello che riguarda la forza che il movimento potrebbe avere in nome del suo essere al di là dei singoli Stati, poiché è proprio nell’interconnessione e nella globalizzazione che un problema risiede. Difatti, a differenza della Guerra Fredda, la rete internazionale è maggiormente interdipendente – è sufficiente pensare che l’economia cinese e quella americana dipendono l’un l’altra, una cosa impensabile rispetto ai temi dell’Urss. Dunque attaccare la Cina significa attaccare non solo un partner economico e commerciale che garantisce il proprio benessere, ma significa anche attaccare un fornitore di lusso accessibile. La Cina, infatti, con la promozione della propria rete 5G, dei propri cellulari a minor costo ma di apparentemente di qualità, ed in generale di molti altri prodotti riesce a porsi come un partner accettabile. Simile discorso lo si può fare con i paesi della penisola arabica, che promuovono un’immagine di apparente riformismo, ad esempio la possibilità per le donne di guidare in Arabia Saudita ma non quello ben più importante di non essere lapidate vive, anche grazie all’intrattenimento sportivo che sempre più spesso viene in questi luoghi ospitato. Il discorso di fondo diventa il seguente: non è affar mio se i diritti non vengono rispettati, purché le condizioni materiali di vita delle persone siano accettabili. Ciò che mi vendono mi piace. Se vogliono più diritti spetta a loro guadagnarseli.  

Il ruolo e la responsabilità dell’opinione pubblica mondiale sta rischiando di naufragare nel mare dell’intrattenimento e del lusso accessibile che giustificano l’indifferenza e il rifiuto dell’agire. Tra le ragioni del fallimento della Società delle Nazioni fu la distanza geografica che impedì ai suoi membri di prendere una tempestiva decisione in merito all’invasione giapponese della Manciuria nel 1931. Ad oggi le distanze geografiche ci sembrano ridotte dai mezzi di comunicazione e dalla possibilità di spostarsi velocemente, ma purtroppo l’empatia e la disponibilità ad agire sembrano non essere cresciute di pari passo, nel timore di perdere il benessere acquisito.

Immagine di copertina a cura di Elia Sampò, altre sue immagini potete trovarle a questo link.


[1] Per una esaustiva storia dei diritti umani dall’antichità ai giorni nostri, comprendente sia lo studio dell’uso dei diritti in campo politico che da parte dell’opinione pubblica rimando a: Marcello Flores, Storia dei diritti umani, Bologna, Il Mulino, 2008. Per una panoramica sull’umanitarismo internazionale: Silvia Salvatici, Nel nome degli altri. Storia dell’umanitarismo internazionale, Bologna, Il Mulino, 2015.

© Riproduzione riservata