Questa lettera portava solo una firma quando è stata ritrovata sul Cimon della Pala, a più di 3000 metri, accanto al cadavere di un alpinista: Ernesto. Il suo corpo è ancora lassù, all’interno di una piccolo grotta su di una parete strapiombante che d’inverno si gela, dando origine ad un passaggio di misto roccia – ghiaccio. Lassù, in quel piccolo antro riparato e segreto, Ernesto aveva ricavato il suo bivacco per la notte. Non è stato possibile riportare il suo corpo a valle: sarebbe stato troppo costoso, ma soprattutto sarebbe stata un’operazione rischiosa, tanto più che nessuno ne reclama la salma. Ernesto è stato trovato da due alpinisti, due giovani amici che amano salire la montagna e con cui pensiamo sarebbe andato d’accordo visto il comune intendere l’andare per le terre alte. I due sono voluti rimanere anonimi, ma ci hanno fatto pervenire la lettera di Ernesto affinché la pubblicassimo, nella duplice speranza che la famiglia o gli amici dell’autore si palesassero e che facesse riflettere sul modo in cui pretendiamo di andare in montagna. Concezione che riflette il nostro modo di essere nel mondo.[1]
27 febbraio [manca l’anno], tre del mattino, da qualche parte tra le montagne, ma forse non è così importante dove, ma come. Temperatura in tenda: venti gradi sotto lo zero.
È buio, terribilmente buio. L’oscurità è così densa da farmi paura. Accendo la lampada frontale chiedendomi per quanto ancora riuscirà a farmi luce. Fuori è un turbinio di ventosi schiocchi di frusta, di neve battente come milioni di unghie sulla mia tenda, come se volessero squarciarla. Sono solo in un ambiente che sembra ostile, ma che è solo indifferente alla mia presenza. No, ancora una menzogna involontaria. Sono le parole che traggono in inganno. Come può l’ambiente essere indifferente se non ha una coscienza? È esistenza pura perché priva di necessità, quindi non può che essere indifferente all’indifferenza. La montagna è nella sua essenza immanente e trascendente perché oltre la dimensione di senso umana, tocca l’uomo senza compromettersi. È, semplicemente. Perché è viva pur non essendo animata.
Ho quasi finito il cibo – da quanto tempo sono qui in questo bivacco? Sembra un’eternità. Nessuno sa dove mi trovo e ho un piede mezzo congelato. Il dolore è lancinante. La tormenta va avanti da un paio di giorni almeno e mi tiene bloccato qui. Eppure filosofeggio. Poco fa ero folle, ora mi sembra d’essere tornato lucido.
Follia. Vi è lucidità nella follia, consapevolezza della propria situazione. La follia è uno stato rivelativo, una sorta di via d’uscita assurda dall’assurdo, eppure è coerente. D’altro canto la vita è incoerente. La coerenza è soltanto un ideale, perciò definire la follia come uno stato di coerenza mi pare appropriato. Certamente la follia è sincera. Come l’arrampicata, l’esplorazione, l’amore e il desiderio di Natura che mi hanno spinto fino quassù. Una ricerca fine a sé stessa, una ricerca dell’inutile: il “guadagno” è intangibile e personale perché io lo definisco in base allo scambio che ho con ciò che mi circonda. È folle perché è qualcosa che esce dall’ordinario rompendo lo schema di senso che ordina le nostre vite. Potrebbe essere rivoluzionario se non fosse che è riservato a pochi e, soprattutto, non si lega alla verità.
La verità è una questione politica. Ciò che faccio attiene all’ambito della sincerità. L’arrampicata, l’andare nelle terre alte, è un’attività essenziale e, pertanto, intrinsecamente sincera. Quando arrampico sono essenziale: so di essere solo con la parete, le prese e la forza di gravità. È essenziale perché elimina il superfluo, portando la coscienza su una contingenza che tiene di conto il passato – dove metto i piedi – e il futuro – dove mi aggrapperò. So che se dovessi cadere la “colpa”, o meglio l’errore, sarà soltanto mio. Nessuna finzione, nessuna scorciatoia. È essenziale. L’arrampicata riconduce l’attenzione su ciò che è realmente importante, ricollocando tutto entro la giusta prospettiva. Non può che essere sincera perché è come la vedo, come si presenta. Non ci sono alternative come nel gioco delle verità, la quale si ammanta di strutture e pensieri volti a giustificarla. L’essenziale non ha bisogno di giustificazioni o di condizioni. È per questo che nell’arrampicata, e più in generale nell’alpinismo, ci dividiamo in due gruppi. Uno che è consapevole di quanto detto e non può fare a meno d’accettarlo e, quindi, riduce il suo andare sempre più allo stretto necessario, all’essenziale, per non nascondere o mascherare o tradire questo moto, questo stare in montagna che è più con la montagna. È facile, in questo modo, arrivare al free solo. Che cosa c’è di più essenziale? Vi è poi un altro gruppo che corrompe la sincerità portando il superfluo perché ciò che conta non è lo stare ma l’andare, non l’essere con ma l’essere per.
Io ho scelto l’essenziale perché in esso scopro una situazione di benessere che è anche qualcosa di più. Non sono in grado di trovare le parole. So solo che c’è qualcosa che si svela e che questo svelarsi è così sfuggente, così momentaneo e fulgido allo stesso tempo, così profondo, che è come se l’universo intero stesse dentro di me in una visione in cui niente si annulla e in cui tutto si fa essere reciprocamente. L’alpinismo è anche ricerca di questa visione. Ricordo la prima volta che provai quanto ho scritto. Ero sull’Appennino con la mia mastra dell’alpinismo giovanile e un amico. Era già un po’ che andavo per le montagne e ne assaporavo la fatica, la gioia in quelle rocce intangibili nella loro essenzialità, ma quella volta c’era qualcosa di diverso che mi sfuggiva. Era inverno, eravamo andati in escursione con le ciaspole e i ramponi. Avevamo risalito un crinale passando ai margini di un lago ghiacciato. Sopra di noi le nuvole correvano via all’impazzata squarciando il cielo di blu. Salimmo sul crinale fino alla sua metà, quando trovammo neve troppo fresca e poco compatta. Per di più il tempo stava cambiando: dovevamo scendere. Alla fine del crinale, ci trovammo in una tormenta. La visibilità era bassissima, eravamo immersi in una nube bianca e grigia, fumosa e turbinante. La mia maestra si fermò e ci mettemmo in cerchio. Senza dire una parola tirò fuori la corda e ci legammo: sarebbe stato troppo rischioso stare senza, se fossimo caduti o se ci fossimo persi non ce ne saremo accorti anche perché non riuscivamo a sentirci. Lei in cima, io in mezzo, il mio amico in fondo, proseguivamo nel solco della traccia. Arrancavamo lottando contro il vento, uniti da un cordino che sembrava fragilissimo e che si perdeva nella nebbia. Ci intravedevamo, ma era come essere soli, pur essendo legati l’uno all’altro in modo indissolubile. Nonostante tutto, nonostante fossimo sferzati dal vento e dalla neve, proseguivamo a capo chino con fatica, arrancando, senza dire una parola. Avevo freddo, le labbra mi si gelavano rompendosi nonostante il passamontagna, dai fori del naso si formava del ghiaccio, le mani e i piedi mi facevano male, la schiena mi doleva sotto al peso dello zaino. Eppure nessuno di noi si fermò, nessuno di noi pianse o si lamentò: proseguimmo tutti, inesorabilmente. Non ero felice, non ero triste, avevo timore sì ma, allo stesso tempo, non avrei voluto essere in nessun altro posto. Stavo assaporando qualcosa di essenziale che non andava necessariamente al di là delle cose, come se fosse una metafora della condizione umana. Quando il vento finì ed il cielo si riaprì eravamo quasi arrivati, superammo una collinetta abbracciati da alberi adorni di steli di ghiaccio di cui il riflesso ci illuminava baciandoci e accarezzandoci. Poi comparve la vallata in tutta la sua bellezza e quell’esperienza finì. Avevo visto, avevo vissuto, tutto l’universo senza che nulla s’annullasse ma come se tutto si rendesse partecipe. Pensai che ciò che siamo non eravamo e che ci che siamo non saremo. È in questo spazio ristretto che è confinata la nostra libertà: tra lo scricchiolio del nostro passato attraverso cui pensiamo noi stessi e l’impazienza del futuro e delle sue aspettative. Se non vi è equilibrio si finisce schiacciati e l’alpinismo insegna proprio questo: se le paure mi bloccano non riuscirò a salire; se non facessi tesoro delle mie esperienze passate non potrei salire; ma non posso neanche farmi condizionare dall’impazienza dei miei obiettivi: devo cercare di essere lucido e solido, comprendendo quando è il momento di scendere, di tornare con i piedi a valle. Tra il ciò che eravamo e il ciò che saremo si colloca il regno del possibile. Sono le due condizioni che rendono il possibile tale perché la libertà non è un assoluto, ma è sempre dipendente da una o più condizioni; in questo suo modo d’essere sta la sua posizione, il suo collocarsi in maniera radicale e netta. La posizione, però, esprime anche il suo legame non più solo con le condizioni, ma con ciò che la fa essere: l’ambiente, le altre persone. La libertà la intendiamo in nome di un’assenza, ma essa è anche presenza. La presenza mia, in questa luogo, ma anche quella dell’altro o dell’ambiente rispetto a me. È questo «rispetto a me» che mi fa pensare, che mi fa prendere coscienza che c’è altro, che c’è del diverso, ma che c’è anche una condizione comune ed in nome di questa condizione, di questa comunanza di posizioni, che possono essere anche diverse, che difendo la vita.
Una libertà che assomiglia molto alla solitudine. Sono solo quassù. Una solitudine così forte che è difficile da immaginare, perché è un sentimento da cui non c’è scampo, sia fisicamente che mentalmente. Avrei voglia di urlare, ma so che se lo facessi la mia voce non riuscirebbe ad oltrepassare le pareti della tenda tanto è il frastuono la fuori. Ma si è sempre soli: permane sempre un velo di incomprensione tra gli uomini. E si è soli anche nella decisione, nel momento in cui si sceglie di agire. Ma ogni solitudine s’accompagna allo scricchiolio e al frusciare di voci mute ed invisibili, di fantasmi di ciò che era e di ciò che vorremo che sia.
La mia solitudine s’accompagna ai fantasmi.
Ho sempre avuto la convinzione, o la consapevolezza, che sarei morto relativamente presto. C’è chi in queste parole vede una ricerca costante della morte, la prova che ciò che faccio è una sfida con l’eternità e una ricerca d’adrenalina che cela il suicidio. Ma l’alpinismo è vita, è esaltazione della vita. È vita nella sua forma più pura ed essenziale.
Non posso dire di avere amato la vita, ma di avere avuto delle aspettative e questo perché il mio vivere la vita era inteso al di là del bene e del male, al di là dell’amore o dell’odio. Ho sempre cercato di concentrarmi su ciò che sono, su ciò che la vita è. Vita…è vero: certe volte t’ho detestato, altre t’ho desiderato. Ma sono sempre ritornato al ciò che è al di là delle definizioni. E questo perché la vita è l’unico valore, l’unico fondamento, l’unica condizione comune, la fonte di tutto. La vita è essenziale ed è sincera, pertanto è intensa. Forse troppo. Per questo viene corrotta con la menzogna, l’avidità, l’ingiustizia: perché supera le nostre aspettative e, perciò, crediamo di non esserne all’altezza. Ma siamo anche noi la vita. Parlarne troppo astrattamente, facendone un discorso di verità, ce lo fa dimenticare.
Vita. Io so che cosa faccio: io scalo. In questo momento così tragico non vorrei essere in nessun altro posto, anche se ho nostalgia di ciò che avrebbe potuto essere, pur non pentendomi di ogni singolo passo che mi ha portato qua perché sincero e coerente con le mie aspettative. Sarebbe stato buio, altrimenti, la fuori.
[1] Questo è un racconto, pertanto è opera di finzione. Non esiste nessun Ernesto, nessuna lettera e nessun corpo è stato ritrovato.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.