Nel settembre del 2018, come ultima impresa di una serie di escursioni estive, ho compiuto un anello attorno al monte Pisanino: anziché seguire la via normale, ho tentato la salita per l’antevetta della Bagola Bianca – pista rischiosa in inverno, ma alla portata di tutti nella stagione estiva, se non si soffre di vertigini.

Le impressioni che ho provato nel percorso di cresta che dalla Bagola si connette alla vetta del Pisanino mi hanno spinto a tracciare le linee dei miei pensieri in queste poche pagine: il risultato è qualcosa a metà fra il resoconto d’un’escursione e una riflessione scaturita dalle sensazioni che ho cercato di trascrivere. Di scarso aiuto come strumento per ripetere l’impresa, questo testo non aspira neanche alla dignità del racconto: simile a delle pagine di diario, l’unica pretesa di questo scritto è di essere rigorosamente inutile.
Non è facile convincere gli amici a svegliarsi alle cinque del mattino: la domenica ci si alza tardi e settembre non è avaro di luce – anche per chi va in montagna, sembra non esserci motivo di guastarsi la giornata con una levataccia.
Ragionevole. Eppure, svegliarsi presto ha dei moventi efficaci, per quanto nascosti: svegliarsi prima del panettiere è come cogliere la propria città sul fatto – calcarne le strade prima di quando se l’aspettino, prima che abbiano fatto in tempo ad imbellettarsi per lo spettacolo mattutino. Chi cerca le lancette d’un’ora simile non per forza è un soldatesco ammiratore della disciplina: se contravviene alla legge del giorno di festa – lo svegliarsi tardi – è solo perché una festa come tante non gli basta. Costui cerca l’eccitazione d’un bambinesco giorno speciale. Nei gruppi di amici che decidono di andare in montagna, c’è sempre un’esaltata minoranza che preme per alzarsi alle cinque del mattino: nel mio gruppo, sono io.
Stipati in una panda verde militare – vecchio modello s’intende – cinque compari (Valeria, Jacopo, Emanuele, Salvatore e il sottoscritto) si dirigono verso le Alpi Apuane, alla volta di una vetta conosciuta; partiti da Pisa, dopo un viaggio fatto di chiacchere assonnate, ci rendiamo conto che siamo ormai da tempo immersi nel paesaggio della Garfagnana: ce ne avvisa il fatto che caracolliamo continuamente l’uno sull’altro ad ogni curva. Il monte Pisanino domina la Val Serenaia: sveglio anche lui da qualche ora, ci guarda percorrere gli svincoli d’asfalto fra i primi barlumi di sole. Non ci sono sentieri CAI per raggiungere la vetta del “re delle Apuane”, ma solo i segni blu della via normale: non è però da questo lungo sentiero sul versante sud-est che abbiamo deciso di passare oggi; è piuttosto alla salita dall’antevetta della Bagola Bianca che abbiamo deciso di dedicarci: il versante è l’opposto, il sentiero non segnato, la salita ripidissima.
Il punto di partenza è il Rifugio Val Serenaia, a 1060 metri. Si supera il greto secco del torrente e si cercano tracce verso sinistra, fino a che, mentre si è sempre con lo sguardo basso per cercare di capire se il sentiero è quello giusto, non ci si accorge che si è già iniziato a salire. Autunno mangiafoglie tiene in serbo i gialli e i rossi per i paesaggi di fine anno: a settembre è invece il verde a dominare la vista, ed è sotto il segno di questo colore che ripenso a quest’escursione; chi frequenta le Apuane conosce il paleo, l’erba graminacea dalla resistenza tenace che s’espande ovunque in questa zona: è suo il verde che le piogge di fine estate hanno riacceso; assieme con le rocce lavate dal sole e i detriti sassosi che frastagliano ogni sentiero, è questo il noto paesaggio delle Apuane – le sorelle brulle degli Appennini.
Il versante nord-ovest è molto esposto e la ripida salita trova una prima pausa solo a 1595 metri, dove alcuni risalti rocciosi bucano il tappeto di paleo. Segue un crinale particolarmente affilato ed un ulteriore lastricato di roccia che impone un tratto d’arrampicata. È qui che alcuni di noi cominciano a sollevare dubbi sulla salita: le vertigini, l’incertezza su come sarà il resto del percorso, il desiderio di non mettere in difficoltà chi si sente meno sicuro fanno sì che si propenda già per tornare indietro. Imprecazioni varie da parte dell’esigua minoranza (fatta dagli stessi che premono per svegliarsi presto) accompagnano questa decisione del gruppo: non accetto di certo che si torni indietro dopo due misere ore di cammino. Come sempre in dissonanza rispetto alle scelte generali, decido che proseguirò da solo verso la vetta – ma in ultimo riesco insperatamente a guadagnarmi un compagno: Emanuele salirà con me, forse per entusiasmo ancora acceso o per senso di pietà nei miei confronti; conoscendolo, la seconda opzione è più probabile, ma accetto di buon grado una parola che mi dia lieve conferma del contrario e mi avvio con lui verso la cima, guardandomi bene dal sondare ulteriormente la sua fermezza. Gli altri tornano indietro e ci accordiamo con loro perché ci aspettino a valle: prima che possiamo vederli di nuovo dovremo aver compiuto un anello attorno al monte, così da spuntare dalla strada asfaltata alle loro spalle.
Mi sembra che gli escursionisti siano di due tipi. Ci sono quelli che cercano compagnia per la gita di un giorno e accettano di buon grado variazioni nel percorso, modifiche e soste: apprezzano di cuore la vista dei paesaggi che offre la montagna, ma si può sottrarre loro persino l’arrivo in vetta e non si diranno scontenti – potremmo chiamarli “escursionisti tranquilli”. Placidi sognatori, per loro la montagna andrebbe smussata un pochettino, per rendere più dolce la salita. L’escursionista tranquillo è in fondo un altruista: si trova in montagna, certo, ma anzitutto si preoccupa della salute di chi lo circonda. C’è chi soffre di vertigini, chi non sa indossare i ramponi, chi è privo dell’allenamento adeguato; per tutti costoro l’escursionista tranquillo ha una buona parola da spendere e una riserva di pacche sulla spalla da offrire. Non serve pregarlo di tornare indietro: sarà lui a proporvi di abbandonare il sentiero di vetta non appena si renda conto che avete un lieve mal di testa. Poi, in fondo, lui su quella vetta c’è già stato. E allora si torna indietro: perché l’escursionista tranquillo ama la natura, questo è certo, ma solo nella misura in cui questa è una delle qualità fra le altre di cui ci s’aspetta presso le anime buone. C’è chi direbbe che costui non è un vero scalatore, che si vedrebbe più volentieri a bivaccare s’una spiaggia piuttosto che a scarpinare in montagna, che insomma la sua principale occupazione starebbe nel cercare ogni scusa per non far fatica. A tali malelingue l’escursionista tranquillo si limita a ricordare che la macchina è sua e che senza il suo aiuto non si sarebbe neanche partiti. A questo punto, di solito, s’arrischia a domandare quando si torna a casa.
Ecco, la malalingua di cui sopra usualmente è rappresentata da un altro tipo umano dalla non altrettanto elevata voglia di scherzare: se il primo accetterà tutto sommato di buon grado l’appellativo di “tranquillo”, questo secondo non sarà contento di sentirsi definire “esaltato”. L’escursionista esaltato ha infatti pochi giorni liberi: ogni critica è un fattore di rallentamento sulla ben studiata (da lui) tabella di marcia. Lui su quella vetta ancora non c’è stato, e ha dovuto fare ampio uso della sua migliore retorica per convincere gli altri che era proprio quella la meta più adeguata per la prossima domenica. Se sentirete il bisogno di ridiscendere a valle, non sarà facile convincerlo: prima di desistere a salire, insisterà per sincerarsi che proprio non riuscite ad appoggiare a terra quel piede slogato, che siete effettivamente in stato di febbre allucinatoria, che insomma non c’è modo di convincervi ad accomodarvi in mezzo al bosco e aspettare le prossime ore in attesa che lui possa guadagnare la vetta e poi tornare a prendervi ridiscendendo. A fatica, in casi estremi, se si sarà finalmente reso conto di aver catalizzato l’odio del gruppo di camminatori cui nelle ultime ore ha cercato di sottrarre ogni speranza di riposo, accetterà infine di accompagnarvi verso valle. Per lui la montagna deve significare soprattutto fatica: solo che l’idea romantica della gioia attraverso la sofferenza si tramuta facilmente in frustrata rassegnazione non appena scopre che la sperata cellula escursionistica si mostra poco duttile a seguire le sue direttive. Ecco, a questo secondo tipo di escursionisti appartengo io.
Ora che ho chiarito lo spirito con cui sospinsi il mio compagno alla salita, posso pensare di proseguire nella descrizione della nostra ascesa verso la Bagola Bianca. Il primo tratto d’arrampicata svetta in una sella che nelle guide è indicata trovarsi a 1613 metri: un avvallamento scavato tra le rocce che segna una più forte discontinuità nel paleo. La rapida discesa s’impenna poi in una balza lastricata di bianco che impone di aiutarsi con le mani nel salire. Il sole ormai a picco ci accompagna mentre fatichiamo sugli ultimi duecento metri di dislivello che ci separano dalla ormai a lungo attesa antevetta. A 1809 metri s’erge infine la prima cupola erbosa che concede la Val Serenaia: dalla Bagola Bianca si può infatti finalmente godere di una prima vista a tutto tondo sulla valle spezzata in due dal Pisanino, dato che i versanti orientale e settentrionale sono a questo punto visibili.
Dopo uno spuntino frugale – la scusa per una piccola pausa e ammirare lo spettacolo – decidiamo di serbarci il pranzo vero e proprio per la vetta. Ed è la vista di quest’ultima che comincia adesso a preoccuparci: se infatti avevamo letto che questo tratto di cresta sarebbe stato particolarmente esposto su entrambi i lati, c’eravamo finora rassicurati a vicenda senza curarci di riempire queste parole con l’immagine di come sarebbe potuta essere l’ultima parte del percorso. A questo punto però si palesa che per raggiungere dalla Bagola i 1946 metri della vetta del Pisanino dobbiamo passare sulla lama di roccia più affilata che mi è mai capitato di scorgere su vie non ferrate in Apuane. Un nuovo strato di emozioni si aggiunge ai due precedenti di iniziale eccitazione e spessa fatica: finalmente un pizzico di paura riattiva le energie e la curiosità per l’ultimo tratto di ascesa.

L’esposizione è totale: su entrambi i costoni della montagna lo sguardo all’ingiù ci regala le immagini di cadute spettacolari – con l’unica differenza che da una parte finiremmo con le ossa in frantumi nella valle assolata da cui siamo venuti salendo e dall’altra nel verde scuro di più ombrosi abissi di roccia. Nondimeno proseguiamo ancora, in certi punti tranquillizzati da minimi slarghi della cresta e a tratti invece pavidamente accovacciati per superare i passi più scoscesi.
In ultimo però la cresta già erta s’impenna in un bastione verde a chiudere la via ai meno coraggiosi. Qui le esili tracce del sentiero mostrano che è necessario condursi verso sinistra per aggirare l’ostacolo e vincere il monte con la strategia. Già rimpiango la mancata spavalderia che mi ha sottratto all’impresa di prendere il costone erboso di petto, quando mi rendo conto che lo spettacolo che ci regala lo scivoloso versante sinistro vale più di quanto si potrebbe credere: un ciglione gradinato da percorrersi a mezzacosta nel paleo – l’impressione che mi ha dato scalarlo è precisamente quanto mi ha spinto a scrivere questo resoconto. È tanto ripido che è impossibile inerpicarvisi senza aiutarsi con le mani: il risultato è che si affonda nel verde con tutto il corpo, ci s’immerge in un abbraccio dinamico nell’erba che è quanto più vicino a quello che verrebbe da chiamare un “abbraccio con la montagna”. Il costone di vetta copre la vista del sole, ma a questo punto sembra proprio essere il cielo la meta a cui miriamo, tanto è verticale la salita: il viso affondato nell’erba, i nastri verdi a incorniciare le nuvole mentre saliamo col naso all’insù ad acchiapparle. È «il buco nel cielo» del racconto di Chesterton[1], penso mentre salgo – un luogo dalla struttura irripetibile: il connubio riuscito fra il senso di protezione della casa – mai nessun letto mi è stato più comodo di quel muro d’erba scaldato dal sole – e l’apertura sull’immenso che è concessa solo a chi s’arrischia ad esplorare il mondo esterno.
È impossibile ricalcare a parole quella sensazione – nondimeno in quei momenti non posso che riallacciarmi ai ricordi, che, pur concessi da una formazione mediocre, anche in me hanno dovuto far risuonare le note strofe dell’Infinito leopardiano. Non c’è modo di offrire questa citazione senza provocare repulsione, a meno di non segnalare che un senso nuovo in quel momento mi sembra dover attribuire al tema dell’occlusione dello sguardo sull’orizzonte da parte dell’ormai tediosa siepe. È possibile farlo con umiltà solo dimenticando che si parla di Leopardi e se ci si limita piuttosto a pensare ad un ragazzo, che, appena ventenne, sia venuto su di un colle a fuggire l’uggia del suo minuscolo paese. Allora quelle sodaglie verdi della scalinata d’erba in cui sono immerso si riconnettono con facilità alle piante a cui nella poesia è dato il ruolo di escludere l’orizzonte. Tagliare la terra che riconnette la volta celeste all’altro emisfero dà la sensazione più vicina alla protensione sull’immenso che sia possibile provare. Ecco perché si parla dell’«infinito»! Se si recide la prospettiva sull’orizzonte, ma si mantiene uno scorcio sulla calotta luminosa, l’impressione inevitabile è quella d’essere scagliati senza bussola in una vastità sconfinata in cui non ci si può trattenere dall’immergersi. Nello spazio incollocabile di quest’effetto visivo, rimangono allora solo i suoni – il vento che soffia d’intorno – a imporci di ripiombare nel presente, così da rendere possibile comparare «quello infinito silenzio a questa voce»[2]; un paragone che può essere condotto fino in fondo solo dal poeta.
Cosa significa allora avere la montagna? Quale l’esperienza che permette che questa ci sia data? Arrampicarvisi, toccarla; vederla sezionata dalle cave che i conoscitori delle Apuane hanno così ben presenti – anche la vista di quel nucleo marmoreo che sta sotto lo strato di terra verde su cui camminiamo ci dice con cosa abbiamo a che fare; infine raccogliere e connettere ciò che abbiamo afferrato immergendoci nella sua stagione, e cristallizzare quest’esperienza nella pratica, più che nelle parole.
Eppure simili momenti aprono scorci su modi più giusti d’intendere la parola poetica: non più in contrasto con l’incontro con le cose, ma precisamente come lo sforzo per fissare il contenuto di ciò che queste sono in grado di concederci, quando si ha la pazienza di interrogarle e prestar loro la nostra voce per rispondere. Intendo dire che laddove parrebbe facile vedere nella poesia uno degli esempi migliori di pensiero astratto, se cerchiamo di capire di che tipo sia lo sforzo che compie chi scrive, si riesce invece ad afferrarne la piena concretezza: non si tratta affatto di un libero vagheggiare, ma è piuttosto il tentativo di forzare la lingua a rendere costantemente riattingibile la ricchezza di un’esperienza concreta. Seguendo questa linea, mi viene da pensare a Goethe e mi diventa più chiaro che «così l’arte appare oggettiva al pari della scienza»[3] e che «solo la forma ne è diversa»[4]. Non posso che soffermarmi a pensare come questa prospettiva sia del tutto opposta a quella del pensiero corrente: laddove oggi è così facile incontrare relativismi d’ogni sorta, tali da cercare d’insidiare col tarlo della soggettività e dell’inconfrontabilità lo spazio di qualsiasi esperienza, riconducendone il contenuto mai alla cosa stessa, ma sempre a fattori “culturali”, “sociali”, “politici”, qui invece è proprio il territorio di ciò che è oggettivo ad essere arricchito – all’«oggettivo pensare» si può affiancare un altrettanto «oggettivo poetare». In questi termini, compare un nuovo ruolo per il soggetto umano: anziché pensare il soggetto come uno schermo ineliminabile sulle cose – l’accettazione rassegnata dell’impossibilità di una vera conoscenza – diviene chiaro come questo possa essere proprio il terreno in cui la loro meraviglia può fiorire. Non più la vanità, ma l’apertura sul mondo: l’anima in grado di assumerne tutte le forme, di compiere tutte le esperienze.
Penso a questo, quando a rompere il filo dei miei pensieri è una preoccupazione di ben più pragmatica natura: in un passaggio sdrucciolevole metto il piede in fallo e per poco non capitombolo nel canalone giù di sotto. Un attimo di spavento e mi fermo per riprendere fiato, ringraziando gli dèi della fisica di non avermi fatto perdere tutto d’un colpo il buon quantitativo d’energia potenziale che avevo impiegato l’intera mattinata ad accumulare, e proseguo verso la vetta, che ormai è a portata di mano. Naturalmente per primo, apro la strada all’amico Emanuele, così che riguadagniamo la vista sull’orizzonte e ci possiamo fermare per il pranzo. Da qui si vede anche il mare.

Il resto del percorso prosegue tranquillamente: dopo pranzo ci avviamo alla discesa per il Canale delle Rose e aguzziamo l’occhio in vista dei segni blu della via normale. Passati i balzi del primo tratto di sassosa ridiscesa, compiamo il lungo traverso che ci riporta ai 1642 metri di Foce di Cardeto, dove comincia l’unica sezione boscosa dell’intero percorso. Seguitando a chiacchierare ininterrottamente, imbocchiamo il sentiero CAI 178, mentre rievochiamo i più bei momenti dell’ascesa. Siamo ormai lontani da quelle sensazioni, e, per quanto ci sforziamo di riacchiapparle, finiamo inevitabilmente nel ridere e nella comicità che non può che seguire i discorsi di chi si prende troppo sul serio. Al termine della lenta discesa nel bosco verso il rifugio ormai è buio: prima che possiamo ritrovare i nostri compagni, già incontriamo le loro voci preoccupate risalire dalla valle fino a noi. Spaventati del nostro ritardo, avevano cominciato a cercarci. Non sono poche le energie che servono per convincerli che no, non avevamo intenzione di farci tutta la Garfagnana a piedi prima di avvertirli, e che ci dispiace di averli fatti stare in pensiero. Nonostante il litigio, mi sento vicino agli amici e li abbraccio uno ad uno; impietositi, questi non mettono in atto la minaccia di abbandonarci ai cinghiali, e ci lasciano salire in macchina.
[1] Cfr. G. K. Chesterton, The flying inn, trad. it. a cura di G. Dàuli, L’osteria volante, Bompiani, Milano 2016: è il luogo dell’infanzia dimenticata del protagonista – nascondiglio fra le felci dotato di un basso sottotetto di foglie che cela alla vista ma concede uno scorcio sulla volta celeste.
[2] G. Leopardi, I canti, l’infinito.
[3] R. Steiner, Le opere scientifiche di Goethe, Fratelli Melita Editori, La Spezia 1988, p. 96.
[4] Ibidem.
Articolo a cura di Alessandro Pisani. Tutte le foto sono di Emanuele Giuliano, è vietata la loro riproduzione senza il consenso dell’autore.
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Ciao bellissimo articolo, ho fatto ieri il tuo stesso percorso. Se tornassi indietro non riprenderei la traccia sulla sinistra prima della vetta ma proverei a proseguire in cresta. La parte sinistra è veramente verticale e ieri non in tutti i punti era presente paleo dove afferrarsi…