È diventato argomento comune, quasi una moda, tra molti commentatori sostenere la tesi secondo cui staremo vivendo una «seconda Guerra Fredda». L’argomentazione, cioè, secondo cui sarebbe in atto uno scontro tra due potenze, Stati Uniti e Cina, trascurando il ruolo dei “comprimari” – Russia soprattutto, ma anche l’Iran e in particolare l’India –  per il controllo dell’egemonia globale. Uno scontro freddo, non combattuto, come quello che vide contrapporsi Stati Uniti e Unione Sovietica. Ciò che queste argomentazioni tralasciano è ciò che ovviamente mina la validità delle loro tesi, vale a dire il mutato contesto ideologico – se Di Maio dichiara, pur se erroneamente, che «destra e sinistra sono schemi superati», viene già meno un pilastro della Guerra Fredda -, politico, economico, sociale e culturale, ma anche l’obiettivo di questa presunta egemonia.

Sulle origini della Guerra Fredda molto si può dire, tant’è che vi è un dibattito storiografico che si divide grosso modo tra «ortodossi», secondo cui la Guerra Fredda iniziò perché gli Stati Uniti decisero di difendere l’Occidente dalle mire espansionistiche sovietiche; «revisionisti» che sostengono che l’origine stia nelle ambizioni statunitensi e che Mosca avrebbe reagito in propria difesa; «postrevisionisti» che non individuano un “colpevole” e che preferiscono concentrarsi sugli aspetti strutturali del conflitto[1] – ed è quest’ultima la metodologia adottata in questo articolo. Gli storici riescono comunque a trovare un accordo su due condizioni che precedettero ed accompagnarono l’inizio della Guerra Fredda. Innanzitutto il contesto ininterrotto di guerre, non solo mondiali, che precedettero il confronto tra Urss e Stati Uniti e che coinvolsero l’Europa e il mondo per trent’anni, cui va aggiunta una lunga fase di depressione economica iniziata con la Crisi del 1929. Differentemente da allora viviamo in un contesto di pace lunga, di almeno trent’anni, tra le grandi potenze e, nonostante la recessione del 2008-2009, una sostanziale crescita economica. Il secondo fattore è più complesso perché chiama in causa il secolo lungo americano e il secolo lungo sovietico, vale a dire lo scontro tra Stati Uniti e Unione Sovietica per il trionfo delle proprie visioni di modernità e di idealismo incarnate nel wilsonismo e nella declinazione successiva di Roosevelt e nel leninismo e nella successiva declinazione stalinista. Uno scontro che riguardò anche il modello di ordine internazionale da raggiungere, multipolare e multilaterale per gli Stati Uniti, e che con la fine della Guerra Fredda si è creduto raggiunto. Ordine, quest’ultimo, che la Cina nonostante tutto accetta e cerca di influenzare. La vera battaglia, in questo senso, riguarda la ridefinizione degli equilibri di potenza e di medio potenza (si pensi alla Francia in Europa, alla Russia in Medio Oriente e nell’Europa dell’Est, all’Iran sempre in Medio Oriente, all’India nell’Indo-Pacifico), in cui la Cina cerca di imporre la propria egemonia innanzitutto nell’Indo-Pacifico e non nell’Europa, che per molti aspetti fu il cuore della Guerra Fredda. In questo confronto il ruolo delle ideologie e degli ideali che declinano la propria visione di modernità contano ben poco, a differenza dell’epoca di scontro tra Washington e Mosca.

È all’interno del quadro che si è delineato con la fine della Guerra Fredda, l’ordine multipolare auspicato dagli Stati Uniti, e nelle questioni che essa ha lasciato aperte che quindi ci muoviamo oggi.

Da un lato vi è effettivamente uno scontro non per la supremazia intesa come unipolarismo, piuttosto per il ruolo di guida, come maggiore (ma non unico) centro di potere: una sfida per gli aggregatori di potere tra stakeholder che non si escludono e delegittimano a vicenda ma che cercano di ricavarsi un ruolo di preminenza. Dall’altro, una ridefinizione degli equilibri per l’affermazione di potenze regionali che comunque rientra nel quadro dell’ordine multipolare uscito dalla Guerra Fredda. Soprattutto, è cambiata la capacità di proiettare il proprio modello di riferimento nel mondo. Se Washington può ancora vantare un notevole soft power, la Cina non può dire altrettanto e anche questo sottolinea la differenza con la Guerra Fredda. Pechino, infatti, non possiede un’ideologia universalistica in grado di mobilitare molte persone al di fuori dei propri confini; l’Unione Sovietica, invece, aveva questa qualità nel suo messaggio anticapitalista di giustizia proletaria, uguaglianza e giustizia. Nonostante sia una dittatura comunista, la Cina aderisce alla mentalità capitalista e al mercato globale, ulteriore aspetto di differenza rispetto al passato poiché Mosca era esclusa ed isolata dall’economia globalizzata. La Cina non ha interesse a porsi come potenza rivoluzionaria in nome di un ideale, quanto piuttosto lo ha nel proteggere la propria potenza economica in nome di un nazionalismo radicato nella propria cultura. Il nazionalismo cinese, infatti, ha una lunga storia e vede nella Cina il centro del mondo. Soprattutto, la tematica dell’indipendenza nazionale e gli ideali nazionalistici furono alla base della rivoluzione maoista, che solo in secondo luogo fu socialista, a differenza della rivoluzione russa che fu essenzialmente socialista.

Aspetto apparentemente comune tra i leader sovietici e il governo cinese è il considerare gli Stati Uniti un nemico. La retorica di Pechino, nonostante l’aderenza alle norme internazionali, è che Washington voglia governare il mondo, minando così l’ascesa della Cina, e che solo il Partito Comunista cinese gli si opponga. La differenza sorge a questo punto, perché l’ideologia sovietica credeva nel’ineluttabilità del conflitto con le potenze capitaliste, Stati Uniti in testa. Il Partito Comunista Cinese non condivide questa visione: vede negli Stati Uniti un ostacolo ai suoi obiettivi di dominio, ma non crede che il sistema di governo americano debba essere sconfitto per raggiungere i propri obiettivi.

Durante la Guerra Fredda i «blocchi» che dividevano il mondo erano realmente tali. Potevano esservi interdipendenze e dialoghi, ma il blocco, il rifiuto di accettare il nemico come interlocutore e stakeholder responsabile era ben più forte rispetto al contesto cui assistiamo oggi in cui l’interdipendenza tra i due “nemici” è molto forte. L’economia e gli obiettivi strategici dominano la politica internazionale ben più rispetto alla Guerra Fredda durante la quale invece l’ideologia di riferimento era importante. Ciò che conta nel sistema attuale sono l’accesso e la fornitura a ciò che si può definire come lusso accessibile.

Ciò a cui assistiamo oggi è, quindi, la ridefinizione di equilibri globali, che non necessariamente escludono tensioni e la possibilità dei conflitti, ma che non riguardano una battaglia per la definizione della modernità come nella Guerra Fredda. Si può ravvisare, inoltre, il tentativo marcato di alcuni Stati di ottenere la capacità di influenzare l’equilibrio interno ad un paese, estremizzando determinate condizioni, mantenendo comunque almeno la parvenza del regime vigente all’interno del dato paese, al fine di creare una sovrapposizione di interessi. Ciò è stato spesso al centro degli obiettivi degli strateghi militari e, a suo modo, era già uno scopo presente durante la Guerra Fredda: ancora, sono mutati gli obiettivi ed i contesti.

Chi sostiene che stiamo vivendo una nuova Guerra Fredda, inoltre, non tiene di conto l’Unione Europea che, pur nelle sue difficoltà e nel suo scarso peso internazionale, rappresenta una notevole eccezione rispetto al quadro della Guerra Fredda dominato da paesi non ancora uniti in un quadro federale, pur se orientati verso questa meta, in cui gran parte di quella che è oggi Unione Europea era divisa e contesa tra sfera euro-atlantica a guida statunitense e la sfera del Patto di Varsavia, a trazione sovietica.

La Guerra Fredda ha lasciato delle questioni che influenzano ancora le nostre vite, come del resto molti dei fenomeni cui assistiamo nacquero e si svilupparono in quell’epoca. Ciò non significa che l’oggi sia completamente sovrapponibile allo ieri. Scambiare dinamiche di lungo periodo come prova della validità di un’etichetta valevole in un particolare contesto storico non solo è fallace, ma non trae i giusti insegnamenti dalla storia.


[1] Antonio Varsori, Storia internazionale. Dal 1919 a oggi, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 145 e ss.         

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