“È dura da ricordare” disse Paulette, “ma allora, ai vecchi tempi d’oro, avevamo fede. Niente più funerali, niente più mal di denti. Sanare le ingiustizie, eliminare il dolore, ringiovanire di giorno in giorno, innamorarsi per sempre. Così sciocchi, così donchisciotteschi. Ma credevamo. E poi siamo diventati l’America. Venditori ambulanti, cinici, pantofolai, pratici come i puritani, freddi come il Polo Nord. […] Io non faccio eccezione. In questo momento sono disorientata, lo ammetto. Ho i miei problemi con questa storia della fede”.

(Tim O’Brien, Luglio per sempre)

Un’America disorientata, che misura la distanza tra le premesse idealistiche e la realtà. È ciò che sottintende velatamente Trump con il suo slogan «Make America Great Again», ma è anche ciò di cui parla il (quasi) prossimo candidato democratico alla Casa Bianca: Joe Biden.

L’autorevole rivista di relazioni internazionali Foreign Affairs ha pubblicato questo marzo un lungo articolo dell’ex vicepresidente di Obama. Nell’articolo Biden delinea l’agenda della sua possibile presidenza: rafforzare la leadership statunitense nel mondo e l’economia americana, rendere la società più inclusiva, investire nella green economy; parla, inoltre, della competizione con la Cina e degli spinosi dossier con l’Iran e la Corea del Nord. Soprattutto fa un discorso idealistico che dice qualcosa sulla cultura statunitense e gli intenti che animano l’articolo e, si presume, i propositi di Joe Biden.

Per spiegare il contenuto delle parole di Biden, svelando gli intrecci con la cultura politica (e non solo) degli Stati Uniti, la letteratura può essere d’aiuto, in particolare il romanzo Luglio per sempre (Feltrinelli, 2004) del famoso scrittore americano Tim O’Brien.

Luglio per sempre narra la storia (o le storie) dei membri di una classe del 1969 di un College del Minnesota che si ritrovano per un raduno nel luglio del 2000. È un libro che, almeno in parte, parla di ideali, misurando la distanza che separa i sogni di un tempo dalla realtà d’oggi e quindi dello sforzo da fare per ricongiungere sogno e realtà – ciò che gli americanisti chiamano geremiade.

La geremiade la si ritrova anche nell’articolo di Joe Biden dove infatti le parole chiave sono «to renew» (rinnovare, ripristinare, restaurare) e, pur se in maniera minore, «to rejoin» (ricongiungere). Nell’uso che ne fa Biden «ripristinare» è quindi da intendere sia nel senso di rafforzare ma anche di riportare e/o ricongiungere l’America con il suo ruolo di leadership globale e di promotrice delle democrazie nel mondo. Si dice infatti: «America must lead the world», usando peraltro un’espressione a cui è ricorso anche Sanders. To renew implica, inoltre, una condizione da cui riscattarsi ed il punto di partenza non può che essere la constatazione del cattivo operato della presidenza Trump. Sotto certi aspetti, però, to renew è da intendere anche come un ritorno al passato, cioè alla presidenza Obama – e quindi della vicepresidenza Biden – e ai suoi successi. Del resto Obama continua ad avere un alto tasso di approvazione.

Biden sostiene di volere rendere l’economia e la società più eque e di volerle rafforzare in modo che lo zip code non dica chi sei e chi sarai – una concessione/citazione, questa, ad Alexandria Ocasio-Cortez e all’ala sandersiana del partito. Si tratta di American Dream? In un certo senso sì. Con quest’espressione si intende l’intreccio tra uguaglianza di opportunità, ascesa sociale e benessere materiale che dà forma alla ricerca della felicità. Biden non parla di ricerca della felicità, ma misura la distanza tra le condizioni che rendono possibile l’American Dream e la realtà. È ciò che fanno, pur se più cupamente, anche i personaggi del romanzo di O’Brien, tra cui Dorothy un’orgogliosa repubblicana che ha subito l’esportazione di un seno a causa del cancro e che non riesce a comprendere la sua infelicità nonostante un buon matrimonio e un cospicuo conto in banca. La sua scontentezza è dovuta all’aver preferito, nell’estate del 1969,  una vita sicura e ricca con quello che è il suo attuale marito ad una vita incerta con il suo ragazzo di allora.

L’American Dream in O’Brien è qualcosa di sfuggente, come lo è del resto la ricerca della felicità dei vari personaggi del libro, perché bloccato dalla nostalgia del passato che è divenuta rimpianto. Joe Biden non si spinge a tanto: non fa parte della sua storia pensare con nostalgia agli ideali del ’68, che peraltro poco gli appartengono, e soprattutto non sarebbe conveniente per la sua corsa presidenziale. Ma implicitamente fa un percorso simile che conduce, come nel romanzo di O’Brien ad un messaggio di speranza che sfocia nel Destino Manifesto, la convinzione cioè che la Provvidenza abbia riservato agli Stati Uniti un sentiero radioso e che pertanto all’America spetti il compito di condurvi il resto del mondo. Citando Joe Biden:

It falls to the United States to lead the way. No other nation has that capacity. No other nation is built on that idea. We have to champion liberty and democracy, reclaim our credibility, and look with unrelenting optimism and determination toward our future [spetta agli Stati Uniti mostrare la strada. Nessun’altra nazione ha questa capacità. Nessun’altra nazione è stata costruira su questa idea. Dobbiamo difendere la libertà e la democrazia, dobbiamo recuperare la nostra credibilità, e guardare con implacabile ottimismo e determinazione verso il nostro futuro].

Ecco che la geremiade trova il suo sbocco: una volta constatata la distanza che separa la realtà dal sogno, è necessario rimboccarsi le maniche per ricongiungere idealismo e realtà perché «spetta agli Stati Uniti mostrare la via».

“Magari cucchiamo davvero” disse Amy.

“Anche senza magari” rispose Jan, e prese Amy per mano.

“Seguimi dolcezza. Siamo un mito”.

È a questo punto che il romanzo di O’Brien prende una direzione diversa rispetto a Biden. In un fortissimo momento catartico alla fine di Luglio per sempre l’autore mostra come l’infelicità dei personaggi sia dovuta ai rimpianti poiché sono ciò che impedisce di pensare ad un futuro nonostante la mancata realizzazione dei loro sogni. I vari personaggi trovano così il coraggio di superare il passato e di guardare avanti, dando forma ai loro sogni fino a quel momento sopiti o irrealizzati così che: «per Spook e Marv e milioni di altri sopravvissuti dei loro tempi, ci sarebbe stato anche il sogno essenziale e sempre nuovo di un futuro portatore di splendide cose».

Se la geremiade di O’Brien ricongiunge i sogni nel presente in nome del futuro, superando così il passato, quella di Biden pare invece riproporre di riavvolgere il nastro riportando (o riniziando) il cammino dove era stato lasciato nel 2017. Ma forse non è proprio così.

L’articolo dell’ex vice di Obama è un articolo di propaganda e, come tale, deve infondere fiducia negli elettori. L’azione presidenziale è qualcosa di differente dalle promesse elettorali – e in una certa misura non potrebbe essere altrimenti- perché deve adeguare il sogno alla realtà. In questa consapevolezza Biden sembra muoversi, promuovendo un gruppo di democratici che per il 2021 dovrebbero rinnovare l’indirizzo della politica estera muovendo dalla constatazione dall’aumentato rischio di autoritarismo che corrono le democrazie nel mondo, dovuto anche ad un sempre maggiore numero di Stati dai caratteri autoritari. Contro tale minaccia gli Stati Uniti devono costruire un argine assieme agli alleati – si tratterebbe di un forte rilancio del multilateralismo rispetto agli anni della presidenza Trump. Sembra un messaggio che viene dal passato, dall’American Century. Se fosse così questo messaggio non potrebbe che guardare al futuro: alla costruzione di un ordine globale in cui i diritti e le democrazie devono avanzare verso un nuovo ordine mondiale. Anche in questo caso, comunque, sarebbe una geremiade: ricongiungere, per l’appunto, l’America con il suo ruolo di faro del mondo.

Se la citazione che apre questo articolo fosse stata fatta da Biden non ci sarebbero dubbi: l’America dei «venditori ambulanti, cinici, pantofolai, pratici come i puritani, freddi come il Polo Nord» sarebbe l’America sotto la presidenza Trump. Per molti americani, comunque, il dilemma della «fede», della perdita di orientamento e l’insicurezza dovuta al credere di essere una potenza in declino nel «secolo cinese» è reale, tangibile. È l’America smarrita che si interroga nel nuovo inedito di Bob Dylan, Murder Most Foul.

Sarà Joe Biden all’altezza di questa sfida? Il richiamo all’eredità Obama, infatti, che serve a mobilitare l’elettorato, può (e forse deve) essere il punto di partenza per un nuovo slancio verso il futuro, visto che la presidenza Obama fu, sotto molti aspetti, una rottura con il passato.

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