È una notizia che colpisce come un macigno togliendo le forze, lasciando senza fiato ed attoniti di fronte all’ingiustizia. Luis Sepúlveda è morto dopo lunghi giorni di degenza ospedaliera a causa del Coronavirus.

Ci sono scrittori – pochi, pochissimi – che entrano nella vita di un ragazzo e lo accompagnano per tutta la vita perché contribuiscono a fargli capire chi è, aiutandolo a trovare una strada. Personalmente Sepúlveda, assieme ad Hemingway, è tra questi.

Conobbi Sepúlveda quando venne a presentare a noi bambini, in un cinema della mia città, La gabbianella e il gatto. Lo rividi molti anni dopo, avevo 17 anni, in un paesino della provincia di Lucca, Segromigno a Monte, dove presentò la sua opera insieme ai Modena City Ramblers ai quali si unì nel concerto finale suonando le percussioni.

Durante i primi anni di liceo scoprii i libri di Sepúlveda come Il vecchio che leggeva romanzi d’amore; Un nome da torero; Diario di un killer sentimentale. Libri crudi, duri, in cui la tragicità della vita incombe senza però privare di speranza il lettore. Al contrario, il sapore dolce e amaro della sua letteratura rendeva più avvincente la vita a chi lo leggeva. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Sepúlveda è scampato alla furia omicida di una dittatura fascista, quella del Cile di Pinochet, che lo ha privato per molti anni dell’amore della sua compagna, creduta morta, e di quella della sua terra e dei suoi cari. Un uomo che non si è arreso e che ha continuato a scrivere perché la scrittura per molti di noi è il mezzo con cui fondere linguaggio e azione nel nome di una critica del presente che porti ad uno slancio per il futuro. Che la scrittura sia un mezzo attraverso cui poter cambiare le cose e riscattare gli svantaggiati è stato lui ad insegnarmelo con uno di quei libri che cambiano la vita (e sono veramente pochi): Raccontare, resistere il cui titolo così bello è diventato per me una sorta di mantra. Perché la capacità di raccontare il passato e il presente è anche la capacità di raccontare il futuro, cioè di immaginarlo in base ai presupposti del reale, quindi resistere rispetto a ciò che reputiamo ingiusto. Un insegnamento che anche in questo caso non lasciava da parte quel sapore dolce e amaro che possiede la letteratura Latino-Americana, si pensi ai libri di Francisco Coloane, di Gabriel García Márquez ma anche a Latinoamericana di Che Guevara. Dolce e amaro perché vi è un’affascinante amarezza nella vita, come quella della natura aspra della Sud America e della Terra del Fuoco che conquista l’immaginario di molti nonostante si rifiuti di essere ospitale, ma c’è anche dolcezza e questa non va tralasciata in nome di un futuro che sacrifichi il presente.

Sepúlveda mi ha accompagnato in molte fasi della vita in cui, nell’arco di poche settimane, rileggevo tutti i suoi libri trovando ispirazione e soprattutto qualcosa di simile ad una risposta ma che allo stesso tempo non lo è: la consapevolezza la quale solo la letteratura sa dare e che salva dalla solitudine e dalla condizione assurda.

Nel 2016 esce il suo ultimo romanzo: La fine della storia, cioè quella di Juan Belmonte il protagonista di Un nome da torero. In questo libro Sepúlveda è come se facesse i conti con la storia della seconda metà del Novecento, storia che si aggroviglia tenacemente con quella della sua biografia. Il romanzo attraversa infatti il passato che Belmonte/ Sepúlveda cercano di mettersi alle spalle. Ma al passato non si sfugge: lo si affronta. Così, nonostante sia riluttante, Belmonte deve affrontare nuove prove che sono metafore del passato che torna a riaffacciarsi prepotentemente imponendo una presenza sgradita. L’Urss, la dittatura di Pinochet, la Germania hitleriana, la Patagonia di oggi che lascia intravedere l’altro grande impegno di Sepúlveda per l’ambientalismo, fino alla catarsi finale. Sarebbe bello pensare che questo libro abbia aiutato Sepúlveda e che riesca ora ad aiutare anche noi.

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