I problemi posti dalla fine delle grandi narrazioni postulano una crisi nella misura in cui è venuta meno una condizione, una cornice entro cui collocare l’esistenza. Di fatto si ripropone il problema che mosse la filosofia di Platone: trovare un sapere che fosse universale e necessario perché altrimenti non è sapere. Ciononostante rimangono due problemi ulteriori. Innanzitutto la concezione protagoriana secondo cui l’uomo è misura di tutte le cose appare ormai messa in crisi (in questo caso, parlare di post-moderno può avere un senso): come notava Freidrich Nietzsche, l’affermazione di Protagora dipende dal soggetto che pone e formula il discorso. In secondo luogo il rimanere, da parte della soluzione al problema, un assoluto difficilmente applicabile ad una prassi universale e che, pertanto, sia necessaria.
Uno spiraglio sembra fornirlo Kant il quale pone nel soggetto trascendentale le basi per un discorso universalmente valido e necessario – il livello della pratica. Così facendo, Kant rende il soggetto non più “individuale” – in quanto la soggettività viene intesa come «ciò che tutti ci accomuna» – e, in questo, riabilitando l’esperienza personale del provare meraviglia nell’essere di fronte al mondo. È il solco della riflessione esistenzialista, la quale sottolinea l’esistenza di ulteriori principi a priori quali l’esserci o l’esistenza come condanna, l’assurdità dell’esistenza, l’agire senza speranza. Sia in Kant che gli esistenzialisti, tra cui includiamo per comodità anche Camus, sostengono, come già Platone, che l’azione è morale solo se non è individualizzabile ma universalizzabile. Problema: quando un’azione è universalizzabile? Quando tale azione rischia di divenire distruzione nichilista come nel caso del nazismo? Problemi che si pone anche Camus cui risponde individuando nella vita l’unico valore possibile in cui credere, in quanto condizione che tutti accomuna. Un valore la cui condizione è irriducibile poiché per essere tale deve “vivere” nella tensione tra uno stato ed un altro. Ma anche questo valore diviene facilmente strumentalizzabile: fino a dove è possibile spingersi nella difesa della vita? Quando la vita diviene insopportabile è sempre vita? Quale prassi esprime la vita come valore? E non è anche questa una riflessione che può essere messa in crisi in quanto dipendente da un punto di vista? Cioè, provocatoriamente, la distruzione e l’assoggettamento del Caligola di Camus non possono essere forme di giustizia in quanto difesa di un certo tipo di vita?
In L’Unico Argomento Possibile per una Dimostrazione dell’Esistenza di Dio (1763), Kant sottolinea che l’esistenza è posizione, cioè esserci (l’espressione è la medesima di Heidegger, dasein). In parole povere: il soggetto devo riconoscere che una cosa esiste. Si sfocia nell’Io e tu di Martin Buber: l’io che riconosce al tu l’esserci, l’esistere e la dignità d’esserci e viceversa. L’esistenza è, quindi, una questione di posizione. In quanto tale è intuizione, avvertire di sentire l’altro, è esperienza, ad – venire. La vita come unico valore. In tal senso l’esistenza presuppone sempre una dualità: l’io e il fuori dall’io poiché il soggetto non può che essere tale che in relazione con un qualcosa di diverso che lo fa essere tale, altrimenti non sarebbe o sarebbe semplicemente. Come ogni concettualizzazione, come ogni pensamento, esso presuppone l’assenza di qualcosa, perciò noi pensiamo l’amore in quanto non viviamo nell’amore, ma lo sperimentiamo e ne sperimentiamo l’assenza, noi non viviamo in noi stessi e non viviamo fuori di noi stessi, come viviamo e allo stesso tempo possiamo non vivere. Quindi, se il dato di partenza è sempre l’io che viene a l’esterno, esso diviene veramente tale solo perché presuppone l’esistenza di qualcosa al di fuori di sé che è diverso da lui e che pertanto lo fa essere alterità. Altrimenti non avrebbe bisogno di pensarsi. Ora, questa dualità non si risolve in un unico come nella dottrina platonica: la dualità, lungi dall’essere una risposta definitiva, lascia infatti aperta la domanda del senso ultimo, dell’esserci come risposta ad ogni domanda. Il sublime che crea Unheimlich (perturbante) e Thaumazein (meravigliarsi). Si pensi al sublime di fronte al cielo stellato, il senso (sentimento) dell’esistenza dovuto al sentire, all’avere conferme d’esserci relativo ad una relazione che come tale è posizione. Perturbante e meraviglia generano la riflessione, sono figli del sentire e, sviluppandosi nel tempo lungo, generano il sentimento dell’esistenza che, in quanto condizione della vita, è anch’esso comune a tutti gli uomini. Vi è rassicurazione nel cielo stellato, dopo la perturbazione. Una rassicurazione che nonostante tutto vi è una certa armonia nell’universo (l’esserci). Ma l’armonia, come notava già Platone nel Timeo, presuppone l’unitarietà. Ma si è detto che la dualità non può risolversi nell’unico, rimane in tensione poiché vorrebbe dire, altrimenti, che uno dei due elementi si annulla nell’altro. Anche l’etica kantiana secondo cui un’azione, che in quanto tale è singolare, presuppone l’universale nel momento in cui non è più individualizzabile, non elimina la dualità tra la dimensione, si direbbe oggi, locale e globale. Questa contraddizione apparente dovuta alla dualità non è altro che la precondizione dell’esistenza: esserci/non esserci, esistere/non esistere. L’essere nel mondo presuppone sempre una situazione in cui si è (esserci) in un dato modo, il quale per essere tale presuppone la possibilità di essere in un altro modo, quindi la sua esistenza e la sua assenza temporanea. Di fatto, è la possibilità d’essere in una data maniera, determinata da una certa posizione. Anche ciò che chiamiamo vita, l’esserci, presuppone la possibilità del suo contrario, quindi una dualità non risolta. La vita è quindi posizione in quanto condizione (l’essere nel mondo, l’assurdo, la meraviglia e via dicendo) e situazione (l’essere qui ed ora, in questo momento). La posizione, la vita, sono composte da una binarietà. È una resistenza costante in quanto consapevolezza dell’impossibilità di ridursi ad un’unica categoria/concetto poiché essa è negazione della vita. La vita, come singolarità è comunque sempre plurale. Pertanto la osservo, tento successivamente di descriverla, e ciò mi permette di afferrare un frammento d’un attimo dell’essenza, la quale rimane una lichtung: una radura che si dirada, ma che non si rende mai visibile del tutto. Questo velo di incomunicabilità, di incomprensione, di afferrare non afferrando, genera angoscia e solitudine, è all’origine della malafede, della chiacchiera e dell’equivoco. V’è sempre un qualcosa di colto ma non spiegato e non spiegabile. È comprendere anziché capire, due dimensioni che comunque presuppongono il tempo, quindi la storia, il sentimento a discapito dell’emozione, anche se il comprendere, cioè l’abbracciare la totalità della o delle cose è in tal senso preferibile al capire che si ferma al primo stadio.
L’uscita dalla minorità è questo: prendere posizione. Uscire presuppone l’atto consapevole di posizionarsi al di fuori di una situazione in favore di un’altra. Come ogni situazione è transitoria: uscire è un andare verso che può essere anche un ritorno. In tal senso l’uscita dalla minorità non è mai una situazione definitiva. Disciplinare, annullare la vita nel suo contrario, è collocare in maniera definitiva, specializzare, definire, porre, costringere entro una determinata e rigida categoria situazionale. È il dire «tu sei», cioè attribuire degli attributi di riconoscibilità.
L’equilibrio è la vita in quanto tale, cioè impossibilità di ridurre all’uno. L’essenza è il modo d’essere, cioè l’individuo composto dalle sue moltitudini, nessuna delle quali prevale definitivamente sull’altro, ma che si contaminano, si sintetizzano dando luogo all’individuo, unica unità che nega l’uno in quanto alterità rispetto ad un’altra unitarietà, quindi binarietà. È come un cerchio che al suo interno accoglie infinite e irrisolvibili direttrici e linee, senza le quali non si darebbe il cerchio. Ma anche il cerchio per esistere presuppone un di fuori e un di dentro, anch’esso composto di moltitudini. L’incerto è elemento costante nella vita.
Il problema esistenziale, quindi, sembra non avere soluzione e l’azione nonostante tutto questo, già sottolineata da Camus, continua ad essere elemento fondamentale assieme a quello delle micropratiche. Elemento fondamentale ma non sufficiente.
Il problema riguarda, essenzialmente, non tanto la verità o un ritorno verso qualcosa, ad esempio uno stato primigenio nella natura. Più che la natura stessa, o in sé per sé, o la verità, è l’autenticità ad essere assente. Abbiamo un problema con l’autenticità. È questo che fa soffrire e rende più soli, ma che soprattutto depista e lascia senza una direzione o un orientamento.
Immagine di copertina di: Elia Sampò, ogni riproduzione senza il consenso dell’autore è vietata.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.