Siamo in una situazione in cui il Presidente degli Stati Uniti ritiene l’esercito la «sua forza personale», scrive l’ex generale dei marines ed ex comandante delle forze NATO John Allen su “Foreign Policy”, da potere usare per sedare i riots in corso in più città statunitensi in risposta all’assassinio di George Floyd. Affermazione confermata dall’immagine del generale Mark Milley, Capo dello Stato Maggiore, la più alta carica militare, che cammina vestito in uniforme da combattimento, rompendo per la prima volta il protocollo che vuole che i militari non vadano con questo vestiario dal Presidente, accanto a Donald Trump e al Segretario alla difesa Mike Esper. La strada era fino a poco tempo prima occupata dai manifestanti, ma l’inquilino della Casa Bianca ha provveduto a farla sgomberare ricorrendo alla forza per farsi una fotografia di fronte ad una chiesa bruciata, brandendo una Bibbia per ingraziarsi la christian right e mandare un messaggio agli statunitensi: «sono io ad essere nel giusto, non i manifestanti». Un messaggio spedito con la forza che può avere l’endorsement delle forze armate, l’istituzione fino ad oggi in America tra le più popolari e che Trump minaccia – ma lo ha già fatto a Washington – di usare contro i manifestanti, sprezzante della linea di demarcazione tra ordine pubblico e difesa. Un atto, quello del generale Mark Milley, che destabilizza il quadro istituzionale: per difendere una democrazia dagli abusi militari l’esercito deve rimanere fuori dalla politica. Camminando con la divisa da combattimento accanto al Presidente Milley ha oltrepassato questa regola, dando l’impressione che l’esercito sia ora al servizio della volontà politica.

 Uno «Stato pretoriano» lo avrebbe definito il politologo Samuel Huntington per indicare una situazione in cui il conflitto sociale interno ad un paese è elevato ed in cui l’esercito gode di una così forte preminenza da divenire il centro del potere. Gli Stati Uniti d’oggi non sono uno Stato pretoriano: l’esercito, pur essendo un’istituzione forte, non possiede un potere tale da sovvertire l’ordinamento politico. Ciononostante l’espressione Stato pretoriano è evocativa di un paese altamente polarizzato in cui il Presidente non nasconde, e lo ha fatto più volte nel corso del suo mandato, di volere ricorrere alla forza ritenendo l’esercito una prerogativa personale, come scrive Allen.

Un aspetto interessante sullo Stato pretoriano, inoltre, riguarda la perdita graduale di legittimità dei governanti che diventano, progressivamente, sempre più dipendenti dal potere militare, così che l’esercito assume un sempre maggiore peso politico nella vita del paese.

Gli Stati Uniti stanno affrontando una crisi di legittimità politica? La risposta è, sotto molti aspetti, affermativa: si tratta di un fenomeno complesso e di lungo periodo. 

Trump rappresenta un elettorato specifico: quello dei maschi bianchi con livelli di istruzione medio – bassi e over 50 – non i famosi blue collar come larga parte dei commentatori nostrani continua erroneamente a ritenere. Una parte di popolazione che è sovrarappresentata perché innanzitutto le donne sono la maggioranza dell’elettorato attivo: circa il 55% nelle midterm 2018, l’anno del record di donne elette al Congresso (102); inoltre perché le minoranze così minoranze non sono considerando che le proiezioni demografiche ci dicono che nel breve periodo gli Stati Uniti non saranno più un paese prevalentemente bianco – e questo, assieme all’elezione di un afroamericano alla Casa Bianca, Barack Obama, spiega in parte la reazione bianca che in larga parte appoggia Donald Trump. Dati che dovrebbero far riflettere sul risultato del processo di selezione dei candidati presidenziali: dei tre principali (ora ridotti a due), vale a dire Bernie Sanders, Joe Biden e Donald Trump sono infatti maschi, bianchi e per di più anziani (sono tutti ultra settantenni).

Arriviamo al fenomeno di lungo periodo. Nonostante le midterm del 2018 abbiano visto un record nella partecipazione elettorale, lo storico problema della democrazia americana (e non solo, perché è un fenomeno che abbiamo anche in Italia) è la bassa partecipazione al voto. Un problema di non poco conto perché sul lungo periodo può portare ad una delegittimazione delle procedure attraverso cui la democrazia si realizza, la quale si riflette poi sulla legittimità dei governanti. Ciò è tanto più grave in un paese in cui il processo di selezione della classe politica, le elezioni, sono estremamente centrali e alla base della vita democratica, considerando anche la loro diffusione su più livelli (ad esempio lo sceriffo viene eletto) e la loro frequenza (ogni due anni si rinnova parte del Congresso). La democrazia americana è, infatti, concepita come un mezzo per assicurare ad ogni cittadino la libertà e la sicurezza attraverso le “procedure”, cioè l’insieme di regole, leggi, norme e via dicendo attraverso cui i cittadini possono esprimere le loro preferenze. Siamo di fronte ad un passaggio importante. L’astensione svuota le procedure, privando la maggioranza del popolo dell’esercizio del proprio potere (il voto), delegittimando così la classe politica la quale deve quindi trovare appoggi “esterni” che gli diano legittimità. L’appoggio esterno può portare a degli sbilanciamenti in seno al sistema di pesi e contrappesi su cui si regge la democrazia, così che alcuni apparati statali ottengano un potere maggiore rispetto a quello che era previsto, mentre altri vengono delegittimati proprio perché le procedure attraverso cui dovrebbero trarre legittimazione non vengono messe in atto. Riportando il discorso su termini più concreti, sul caso rappresentato da Donald Trump: l’astensionismo, l’aver perso il voto popolare, le numerose accuse di razzismo e di molestie, delegittimano il presidente il quale cerca appoggio in una delle istituzioni mediaticamente più forti: l’esercito. Allo stesso tempo Trump ha svuotato le procedure attraverso cui si esprime e si realizza la democrazia statunitense:  vi sono stati grandi ritardi nella nomina di figure di rilievo istituzionale e nelle nomine di parte del suo staff; un avvicendamento notevole all’interno della compagine governativa; un uso sproporzionato di Twitter che è divenuto, di fatto, il nuovo canale istituzionale attraverso cui la presidenza comunica – un uso politico e personalistico, finalizzato spesso ad attaccare gli avversari politici con fare da bullo. Vi è, inoltre,il caso di Brett Kavanaugh, giudice della Corte Suprema scelto da Trump che è stato oggetto di una critica molto forte per le accuse di molestie sessuali e che nel corso dell’audizione al Congresso per la ratifica della sua nomina è ricorso ad un atteggiamento a dir poco consono mentre il presidente lo difendeva dalle accuse con una sequela di tweet. Infine ma non di minore importanza Trump è un presidente che ha subito una procedura di impeachment che, nonostante l’assoluzione, lascia aperti numerosi dubbi; un presidente che ha numerose accuse a suo carico di molestie sessuali da diverse donne; un presidente che ha ricevuto l’endorsement del capo del Ku Klux Klan, David Duke, e che è espressione del razzismo sul quale ha giocato la sua elezione e dal quale non vuole prendere le distanze – si pensi all’episodio di Charlottesville o al fatto che Trump non condanni esplicitamente il razzismo e la violenza della polizia nei confronti degli afroamericani, ma che anzi sfrutta la situazione per alimentare l’odio razziale. Considerando quanto detto sulle donne e le minoranze, che de facto sono la maggioranza dell’elettorato, Trump ne esce come un presidente azzoppato, delegittimato.

La delegittimazione è, però, uno dei campi su cui meglio si muove Donald Trump. Fenomeno di lungo periodo, dicevamo, quello dell’astensionismo, ma anche quello della delegittimazione politica che inizia infatti negli anni Sessanta e che ha un culmine negli anni di Reagan e, nuovamente in Trump. La delegittimazione dell’avversario significa che al termine della competizione elettorale uno o tutti i contendenti non riconoscono la legittimità politica all’altro. In questo modo la funzione di mediatore dei conflitti che dovrebbero svolgere il processo elettorale e le cariche istituzionali elettive si svuota così che si considerino come nemici, come unamerican, ognuno come unica e veritiera espressione del paese. Un processo che indebolisce le istituzione e la società, non più in grado di individuare soluzioni mediane, e che svuota le procedure attraverso cui la democrazia si realizza.

È in casi come questi, notava Huntington, che l’esercito assume gradualmente un ruolo sempre maggiore in quanto fonte di legittimazione. Trump sa sfruttare la crescente polarizzazione, ed è ciò che ha fatto negli anni precedenti la sua candidatura: si pensi a quando non riconosceva la legittimità presidenziale di Obama sostenendo che non fosse nato negli Stati Uniti; agli attacchi a Hillary Clinton in quanto donna adducendo, con una delle più classiche manifestazioni sessiste, che fosse isterica; ancora non riconoscendo la legittimità del gruppo di congress women «The Squad» sostenendo che non sono in grado di amare gli Stati Uniti

È in questo contesto che Trump è ricorso sempre più spesso a toni intimidatori e minacciosi, cui spesso abbiamo assistito anche in questi giorni di proteste per la morte di George Floyd: uno su tutti il tweet censurato da Twitter perché inciterebbe all’odio e alla violenza: «when the looting starts, the shooting starts», quando inizia il saccheggio, inizia la sparatoria. Una presa di posizione da parte del presidente cui è seguita l’ipotesi di invocare l’Insurrectional Act del 1807 per federalizzare la Guardia Nazionale al fine di usarla contro i manifestanti con un pugno più duro rispetto a quanto stiano facendo i governatori, minacciando inoltre l’intervento dell’esercito e di fatto dispiegandolo a Washington.

Non è la prima volta che Trump minaccia di ricorrere all’utilizzo della forza militare: lo ha fatto in numerose occasioni riferendosi a Stati esteri, ma anche all’interno degli Stati Uniti quando nel 2018, a ridosso delle mid-term, dispiegò le truppe al confine con il Messico in nome di una supposta «invasione» (parole sue) di immigrati. In questo modo Trump ha reso meno definita la linea di demarcazione tra ciò che è legittimo che l’esercito faccia e ciò che non lo è, indebolendo il controllo civile e politico sulle forze armate. Una strategia che, come si diceva, serve a consolidare un potere delegittimato ed in crisi sfruttando un’istituzione forte sia mediaticamente che nel quadro istituzionale. Una strategia che cerca di ingraziarsi un potere da cui trarre legittimazione e forza, ma che è anche al centro di notevoli investimenti economici, alcuni dei quali si intrecciano con i privati considerando che dagli anni Novanta il ruolo dei contractors all’interno delle forze armate americane è cresciuto costantemente. Trump ha portato la sua retorica del make great again anche in questo campo, aumentando il budget stanziato per la difesa, cercando così di ingraziarsi l’esercito. 

Il terreno favorevole all’ascesa dei militari è, però, anch’esso un fenomeno di lungo periodo.

Storicamente l’esercito degli Stati Uniti è stato per molto tempo di piccole dimensioni, poco propenso alle proiezione esterna anche per una certa diffidenza dei cittadini e delle istituzioni stesse ad avere delle forze armate stabili ed organizzate. Le dimensioni, i ruoli, la forza dell’esercito americano variano, comunque, nel corso del tempo, ma un cambiamento fondamentale avviene con la Seconda Guerra Mondiale: un esercito vittorioso e che si è ingrandito. Durante la Guerra Fredda lo US Army è ciò che garantisce la parità competitiva con l’Unione Sovietica, ciò che protegge gli interessi americani e le democrazie nel mondo. L’esercito si trovò così ad essere in una posizione privilegiata per un tempo molto lungo e questo provocò un piccolo sbilanciamento nelle relazioni di potere, anche se non venne meno il controllo civile e il primato politico.

Le cose cambiarono nuovamente nel corso degli anni Sessanta – Settanta: con la Guerra del Vietnam l’esercito perdette parte della legittimità di fronte all’opinione pubblica, subendo un danno di immagine perché l’impiego che ne venne fatto fu considerato da molti scorretto per una democrazia – reportage giornalistici svelarono ad esempio che l’esercito statunitense si era reso responsabile di alcuni massacri, come quello di My Lay (1968) quando vennero uccisi dai militari 504 civili. Perdita di legittimità che venne in parte recuperata con la Guerra di Grenada (1983) e la Prima Guerra del Golfo (1991). Soprattutto, negli anni Sessanta iniziò il processo di militarizzazione della polizia. Per la necessità di mantenere un buon ordine interno allo Stato, infatti, anche di fronte a nuove problematiche di ordine pubblico come i riots o la nascita di gruppi terroristici, venne accordato l’intervento della Guardia Nazionale e dell’esercito in aiuto alla polizia. Si trattava, escludendo la gestione dei riots, principalmente di consulenze, assistenza e forniture di armi ed equipaggiamenti. Punto di svolta fu l’Omnibus Crime Control Actdel 1968 che accordava la possibilità alla polizia di comprare armamenti, anche militari e di formare squadre d’intervento specializzate nella gestione dei riots e dei cosiddetti stand off. Iniziarono così a svilupparsi le Police Paramilitary Units, come le SWAT, brigate di polizia i cui componenti provenivano per lo più dall’esercito e che erano (e sono) specializzate in tattiche militari ed erano (e sono) dotate di armi ed equipaggiamenti militari. L’esercito degli Stati Uniti diviene con il passare del tempo il “garante” dell’ordine pubblico sotto molti punti di vista: condivide informazioni con la polizia, aiuta nella gestione di determinate situazioni, soprattutto «fornitore di beni» cioè venditore di armi, equipaggiamenti e somministratore di personale, addestrativo e di truppa, alla polizia. Uno sbilanciamento nelle relazioni di potere tra polizia ed esercito e tra esercito e società civile in favore dei militari. Un processo che non è stato, chiaramente, del tutto lineare e che ha trovato molte opposizioni all’interno del paese, ma che ciononostante con il Military Cooperation With Law Enforcement Actdel 1981 e il 1033 Program (1997)di Clinton venne, per così dire, legittimato. Obama ha in parte limitato questo decorso ma con Trump le cose sono nuovamente cambiate.

Nonostante le Guerre in Iraq e Afghanistan abbiano rimesso in discussione il ruolo delle forze armate, vi era quindi una situazione favorevole per l’esercito e per Trump.

Non tutti i membri dell’esercito, comunque, sono favorevoli a ciò che è accaduto e sta accadendo, così come non lo sono molti componenti della Guardia Nazionale che, peraltro, è composta per il 40% da afroamericani – in generale nell’esercito militano molte minoranze, anche perché prestare servizio garantisce l’ottenimento della green cardagli immigrati. Diversi sono stati anche i casi in cui ufficiali di rilievo, come il comandante dell’Air Force David Goldfein, hanno espresso il loro rammarico per la morte di Floyd. Altri, in particolar modo ufficiali e generali ormai in pensione, hanno preso pubblicamente posizione contro l’operato di Donald Trump – sulla decisione di usare l’esercito per sedare le proteste ha espresso parere negativo anche il Ministro della Difesa Mike Esper. Ciononostante l’endorsement del Capo dello Stato Maggiore Mark Milley rimane un fatto dal quale questi non si è ancora scusato, come del resto è evidente che vi sia un notevole problema con le forze armate e in questa presidenza.

In questi giorni è stata oltrepassata una linea labile ma essenziale per il benessere di una democrazia: non usare l’esercito a fini personali e come forza di polizia. Usare la forza per sgomberare dei manifestanti per farsi fotografare di fronte ad una chiesa con la Bibbia in una mano, in una chiara commistione tra sacro, profano e militare: tre ambiti che andrebbero tenuti rigorosamente distinti. Usare l’esercito in casa o minacciare di farlo significa aderire ad una logica ben precisa, quella del soldato: ogni militare è addestrato ad avere di fronte a sé un nemico, non un cittadino, pertanto non solo egli agirà cercando di neutralizzare la “minaccia”, ma chi ne autorizza l’uso all’interno dello Stato considera i suoi concittadini non più tali, ma dei nemici. Non a caso il Segretario alla Difesa Esper ha definito gli scontri urbani come «battlespace», spazio di battaglia, mentre Trump cercava di forzare i limiti del proprio mandato per dichiarare le organizzazioni Antifa «terrorismo domestico».

Ciò che forse può andare bene a Falluja non può andare bene nelle strade di Minneapolis o di Washington. Una linea è stata oltrepassata: Trump e dello Stato pretoriano.

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