Visto il successo de La fine delle grandi narrazioni tra locale e globale e di Abbiamo un problema con l’autenticità abbiamo deciso di mettere a disposizione dei nostri lettori in un unico articolo le due precedenti riflessioni.

Il politologo Francis Fukuyama, in La fine della storia, è stato per certi aspetti rivelatore di quella modalità di pensiero che si fonda sul presentismo – la tendenza a vivere nell’orizzonte temporale del “qui ed ora”. Quella di Fukuyama è una lettura teleologica della storia che, allo stesso tempo, sancisce l’impossibilità di ulteriori letture finalistiche del tempo e, quindi, delle grandi narrazioni.

La fine delle grandi narrazioni pone una serie di problemi che, come notava il pensatore Michel Foucault in Che cos’è l’Illuminismo?, si legano ai processi di liberazione e alle pratiche di libertà. I primi sono necessari e importanti, ma possono avere una fase di oppressione che, per essere scongiurata necessita delle pratiche di libertà, cioè la microprassi quotidiana e locale di resistenza alle istanze del potere. Ma localismo e singolarità della pratica sono sufficienti? Come fanno a convivere con l’oppressione e lo sfruttamento sul lavoro, le situazioni di guerra? Il problema relativo al come fare, sembra evitare il problema riguardante la scelta delle messa in atto delle pratiche, cioè se uscire o no quotidianamente dalla minorità – quotidianamente non a caso visto che l’uscita non è qualcosa di definitivo, almeno in autori come Kant e Foucault, e che pertanto va definita come «pratica». 

Un problema di fondo nelle grandi narrazioni è relativo al fatto che esse tralasciano ciò che lo storico Arnaldo Momigliano definì come la «misura dell’inatteso», cioè le vie laterali attraverso le quali muove la storia – le stesse vie che dovrebbero percorrere le pratiche di libertà. La misura dell’inatteso è la misura dell’imprevisto perché al di là di ogni prevedibilità su un futuro più o meno prossimo la storia futura è storia incerta in quanto in essa tutto è possibile – altrimenti sarebbe reiterare nell’errore che secondo Marc Bloch portò alla «strana disfatta».

La misura dell’inatteso entro cui l’uomo può progettare sé stesso ed agire fa emergere la tensione tra dimensione locale e globale. Una micropratica locale non può che prescindere da una visione globale cui fare riferimento ma, in assenza di grandi narrazioni, come spiegare e dar luogo ad una “resistenza” se non attraverso il ricorso ad un presentismo più o meno latente che funziona quasi come un’ideologia?

Tutte queste questioni sembra che mettano in crisi anche la soluzione kantiana capace di unire soggettività e universalità, rendendo la prima attributo della seconda. Sono problemi che riguardano il come fare: come ripensare, come pensare, come agire, come posizionarsi o collocarsi e così via. La crisi della filosofia, delle scienze, della storia e della società in generale sembra essere qualcosa di latente nel corso del Novecento, perlomeno dal secondo dopoguerra in poi. La Seconda Guerra Mondiale pone, infatti, il problema kantiano dell’irreversibile  e del riconoscimento dell’alterità nella sue forme più estreme – così come la «scoperta» della realtà stalinista e il crollo dell’Unione Sovietica. Sono elementi che hanno contribuito a mettere in crisi il sistema di pensiero incentrato sulle grandi narrazioni e a porre in essere la questione relativa alle pratiche, al come fare anziché al fare in sé per sé . Anche lo scrittore e filosofo Albert Camus pone simili questioni nel Mito di Sisifo e ne L’Uomo in rivolta, cercando una via di uscita identificata, a suo modo, in micropratiche quotidiane la cui essenza è incarnata dalla chiusa finale del Mito: «Il faut imaginer Sisyphe heureux [bisogna immaginare Sisifo felice]». Soluzione che, ad oggi, rimane valida ma che presenta alcuni punti interrogativi.

Primo di essi è il problema della Storia, intesa come pratica storiografica scientifica e di divulgazione, che è forse quello principale e che raccoglie in sé  una serie di criticità: quali domande porre al passato e come farlo; in che modo spiegare ciò che viene scoperto e studiato; dove collocare le domande «chi siamo, cosa facciamo, dove andiamo, da dove venivamo?» che, di fatto, riconducono al tema delle grandi narrazioni. Un problema a questo connesso è il rifiuto di molti storici del parlare di cosa è la storia e di cosa è la storiografia (che son due piani ben distinti), senza scadere ovviamente nella filosofia della storia. Molti storici, cioè, evitano di riflettere, di usare la critica che Marc Bloch poneva alla base della storiografia, sulle domande fondamentali (o, perlomeno, alcune di esse), che come egli stesso notava ne L’Apologia della Storia sono prescientifiche e, come tali, filosofiche – e in tal senso se ne demanda l’indagine al filosofo, ricavando forse un ruolo più tecnico allo storico. Ma se lo storico non può fare a meno di interrogarsi sulla sua disciplina e su ciò che consente di praticarla (gli strumenti usati, il rapporto con la tecnologia, ecc.), non può che finire anche sul tema del come narrare, cioè comunicare, le proprie scoperte e, quindi, in che quadro inserirle. Si torna così al tema delle narrazioni (che siano le grandi narrazioni o meno), che è in sostanza il rapporto che si ha con la storia e l’interrogativo a questo riguardo sembra che, spesso, persino lo storico di professione eviti di porselo. Il che, come si vede, esula dal porsi nel solco della filosofia della storia, rispettando così l’ammonimento di Bloch sulla filosofia della storia, rilanciando il suo invito a rompere le barriere disciplinari in nome di un sapere che sia veramente tale.

Il problema della storia, così come quello delle discipline, riguarda anche la tensione tra dimensione locale e globale il quale, mi sembra, sia anche il problema dello specialismo, cioè il tema del sapere e della conoscenza – quindi il tipo di approccio alla ricerca, se più o meno tecnico – e del come tenere insieme questi due elementi nella quotidianità e nella pratica globale.

Un tema ulteriore riguarda la scelta sull’uscita dalla minorità o dal disciplinamento, che è un problema relativo alla dimensione del singolo. Non potendo obbligare l’individuo a compiere l’atto dell’uscita (sarebbe una contraddizione), questi può scegliere di rimanere nella «malafede», per dirla con Sartre, o nella «chiacchiera e nell’equivoco» per dirla con Heidegger. Molte riflessioni sul tema dell’uscità dalla minorità sembrano dare per scontato e per assodato che le buone pratiche porteranno necessariamente ad una svolta dell’umanità la quale deciderà di uscire dalla minorità – e qui siamo nel piano universale, globale. In tal senso avrebbe ragione Bakunin a sostenere l’importanza del volontarismo e dello spontaneismo. Tale soluzione appare però un po’ innocente, superficiale. Innanzitutto perché presuppone la fede in un’idea di progresso nella storia –ricadendo, così, nella filosofia della storia; in secondo luogo perché non tiene di conto, in quanto grande narrazione di progresso, che l’uscita dalla minorità, perlomeno come viene intesa da una parte della filosofia tardo novecentesca, è micropratica quotidiana e non ci è dato sapere se essa possa configurare un’uscita definitiva. Tanto più che se l’uscita fosse un atto irreversibile significherebbe la fine della storia – torna la questione della storia – in quanto cesserebbero i problemi relativi alla situazione materiale dando per scontato che le domande relative alla condizione umana – il problema dell’esserci, dell’essere di fronte all’assurdo e così via –  trovino una risposta in questo moto teleologico.

Il problema della scelta conduce a quello delle condizioni in cui avviene tale scelta. Sembra che le soluzioni prospettate da Foucault, Camus, Sartre e tanti altri siano, in un certo qual modo, riconducibili ad un ambito libertario in cui la scelta e la pratica dell’uscita, che si fonda sulla riflessione, sul libero e ordinato pensiero a là Che cosa è l’illuminismo di Kant, siano pratiche «borghesi», cioè che può fare chi si trova in una determinata condizione: quella di benessere. Alla fin fine è il problema della democrazia, e forse tali riflessioni si collocano in questo solco, il quale coincide con quello dell’uguaglianza delle condizioni. Leo Strauss in Che cosa è la filosofia politica? sosteneva che la vera democrazia presuppone che ogni individuo non sia più legato ad una sfera di necessità e che pertanto possa istruirsi egualmente e allo stesso modo degli altri, e che tutti vogliano, decidano e possano farlo. Aspetto che si collega a quello della tecnologia: è giusto o no, e nel caso in che misura, demandare l’espletamento della dimensione relativa al lavorare per vivere, cioè quella della sussistenza, della necessità del lavoro, alle macchine? Una soluzione che, comunque, rimane un’utopia perché vi sarà sempre una forma di lavoro, anche nel semplice domandarsi: chi progetta, chi migliora quelle macchine che soddisfano le esigenze materiali? Il che riconduce, comunque, alla certezza che ognuno deciderà di uscire dalla minorità e che quindi ognuno vorrà dedicarsi alla cura di sé. D’altro canto un marxista convinto come lo era Antonio Gramsci in Americanismo e Fordismo (Quaderno 22),riteneva utili i principi tayloristici e fordistici perché, da un lato avrebbero garantito l’efficienza e la massimizzazione produttiva di modo che ogni persona potesse dedicarsi anche ad altro, e allo stesso tempo la ripetitività avrebbe permesso all’operaio di riflettere, di pensare – come se ciò fosse un qualcosa di scontato, che sorge spontaneamente – alla rivoluzione. È chiaro che il problema esistenziale qui non si pone perché nel marxismo viene fatto coincidere con quello materialistico.

Ma se dunque non tutti scelgono di uscire non si rivaluterà allora il ruolo delle avanguardie rivoluzionarie? L’azione avanguardista è ben considerata da Bakunin e da Marx. Ma fino a che punto è giusto che le avanguardie spingano la loro azione e che cosa decide, in assenza di grandi narrazioni e nella crisi delle scienze e della filosofia, che hanno la ragione dalla loro? Che cosa rende una prassi universalizzabile? Inoltre, in che modo l’azione dell’avanguardia si configura anch’essa come micropratica quotidiana o come una macropratica? E, in tal senso, presuppone un’uscita momentanea, quotidiana, oppure definitiva dalla minorità? E a questo punto non si è forse ancora di fronte alla scelta di una lettura teleologica e finalistica della storia?

Sprofondando nella constatazione dell’assurdo da cui non vi è apparente rimedio se non il nonostante del mito di Sisifo, si è dunque in una condizione di impossibile uscita dal problema posto dalla fine delle grandi narrazioni? Tale impossibilità come postula il problema della storia? E come si coniugano pratica locale ed universale, considerando un regime di necessità?

I problemi posti dalla fine delle grandi narrazioni postulano, quindi, una crisi nella misura in cui è venuta meno una condizione, una cornice entro cui collocare l’esistenza. Di fatto si ripropone il problema che mosse la filosofia di Platone: trovare un sapere che fosse universale e necessario perché altrimenti non è sapere. Ciononostante rimangono due problemi ulteriori. Innanzitutto la concezione protagoriana secondo cui l’uomo è misura di tutte le cose appare ormai messa in crisi (in questo caso, parlare di post-moderno può avere un senso): come notava Freidrich Nietzsche, l’affermazione di Protagora dipende dal soggetto che pone e formula il discorso. In secondo luogo il rimanere, da parte della soluzione al problema, un assoluto difficilmente applicabile ad una prassi universale e che, pertanto, sia necessaria.

Uno spiraglio sembra fornirlo Kant il quale pone nel soggetto trascendentale le basi per un discorso universalmente valido e necessario – il livello della pratica. Così facendo, Kant rende il soggetto non più “individuale” – in quanto la soggettività viene intesa come «ciò che tutti ci accomuna» – e, in questo, riabilitando l’esperienza personale del provare meraviglia nell’essere di fronte al mondo. È il solco della riflessione esistenzialista, la quale sottolinea l’esistenza di ulteriori principi a priori quali l’esserci o l’esistenza come condanna, l’assurdità dell’esistenza, l’agire senza speranza. Sia in Kant che gli esistenzialisti, tra cui includiamo per comodità anche Camus, sostengono, come già Platone, che l’azione è morale solo se non è individualizzabile ma universalizzabile. Problema: quando un’azione è universalizzabile? Quando tale azione rischia di divenire distruzione nichilista come nel caso del nazismo? Problemi che si pone anche Camus cui risponde individuando nella vita l’unico valore possibile in cui credere, in quanto condizione che tutti accomuna. Un valore la cui condizione è irriducibile poiché per essere tale deve “vivere” nella tensione tra uno stato ed un altro. Ma anche questo valore diviene facilmente strumentalizzabile: fino a dove è possibile spingersi nella difesa della vita? Quando la vita diviene insopportabile è sempre vita? Quale prassi esprime la vita come valore? E non è anche questa una riflessione che può essere messa in crisi in quanto dipendente da un punto di vista? Cioè, provocatoriamente, la distruzione e l’assoggettamento del Caligola di Camus non possono essere forme di giustizia in quanto difesa di un certo tipo di vita?

In L’Unico Argomento Possibile per una Dimostrazione dell’Esistenza di Dio (1763), Kant sottolinea che l’esistenza è posizione, cioè esserci (l’espressione è la medesima di Heidegger, dasein). In parole povere: il soggetto devo riconoscere che una cosa esiste. Si sfocia nell’Io e tu di Martin Buber: l’io che riconosce al tu l’esserci, l’esistere e la dignità d’esserci e viceversa. L’esistenza è, quindi, una questione di posizione. In quanto tale è intuizione, avvertire di sentire l’altro, è esperienza, ad – venire. La vita come unico valore. In tal senso l’esistenza presuppone sempre una dualità: l’io e il fuori dall’io poiché il soggetto non può che essere tale che in relazione con un qualcosa di diverso che lo fa essere tale, altrimenti non sarebbe o sarebbe semplicemente. Come ogni concettualizzazione, come ogni pensamento, esso presuppone l’assenza di qualcosa, perciò noi pensiamo l’amore in quanto non viviamo nell’amore, ma lo sperimentiamo e ne sperimentiamo l’assenza, noi non viviamo in noi stessi e non viviamo fuori di noi stessi, come viviamo e allo stesso tempo possiamo non vivere. Quindi, se il dato di partenza è sempre l’io che viene a l’esterno, esso diviene veramente tale solo perché presuppone l’esistenza di qualcosa al di fuori di sé che è diverso da lui e che pertanto lo fa essere alterità. Altrimenti non avrebbe bisogno di pensarsi. Ora, questa dualità non si risolve in un unico come nella dottrina platonica: la dualità, lungi dall’essere una risposta definitiva, lascia infatti aperta la domanda del senso ultimo, dell’esserci come risposta ad ogni domanda. Il sublime che crea Unheimlich (perturbante) e Thaumazein (meravigliarsi). Si pensi al sublime di fronte al cielo stellato, il senso (sentimento) dell’esistenza dovuto al sentire, all’avere conferme d’esserci relativo ad una relazione che come tale è posizione. Perturbante e meraviglia generano la riflessione, sono figli del sentire e, sviluppandosi nel tempo lungo, generano il sentimento dell’esistenza che, in quanto condizione della vita, è anch’esso comune a tutti gli uomini. Vi è rassicurazione nel cielo stellato, dopo la perturbazione. Una rassicurazione che nonostante tutto vi è una certa armonia nell’universo (l’esserci). Ma l’armonia, come notava già Platone nel Timeo, presuppone l’unitarietà. Ma si è detto che la dualità non può risolversi nell’unico, rimane in tensione poiché vorrebbe dire, altrimenti, che uno dei due elementi si annulla nell’altro. Anche l’etica kantiana secondo cui un’azione, che in quanto tale è singolare, presuppone l’universale nel momento in cui non è più individualizzabile, non elimina la dualità tra la dimensione, si direbbe oggi, locale e globale. Questa contraddizione apparente dovuta alla dualità non è altro che la precondizione dell’esistenza: esserci/non esserci, esistere/non esistere. L’essere nel mondo presuppone sempre una situazione in cui si è (esserci) in un dato modo, il quale per essere tale presuppone la possibilità di essere in un altro modo, quindi la sua esistenza e la sua assenza temporanea. Di fatto, è la possibilità d’essere in una data maniera, determinata da una certa posizione. Anche ciò che chiamiamo vita, l’esserci, presuppone la possibilità del suo contrario, quindi una dualità non risolta. La vita è quindi posizione in quanto condizione (l’essere nel mondo, l’assurdo, la meraviglia e via dicendo) e situazione (l’essere qui ed ora, in questo momento). La posizione, la vita, sono composte da una binarietà. È una resistenza costante in quanto consapevolezza dell’impossibilità di ridursi ad un’unica categoria/concetto poiché essa è negazione della vita. La vita, come singolarità è comunque sempre plurale. Pertanto la osservo, tento successivamente di descriverla, e ciò mi permette di afferrare un frammento d’un attimo dell’essenza, la quale rimane una lichtung: una radura che si dirada, ma che non si rende mai visibile del tutto. Questo velo di incomunicabilità, di incomprensione, di afferrare non afferrando, genera angoscia e solitudine, è all’origine della malafede, della chiacchiera e dell’equivoco. V’è sempre un qualcosa di colto ma non spiegato e non spiegabile. È comprendere anziché capire, due dimensioni che comunque presuppongono il tempo, quindi la storia, il sentimento a discapito dell’emozione, anche se il comprendere, cioè l’abbracciare la totalità della o delle cose è in tal senso preferibile al capire che si ferma al primo stadio.

L’uscita dalla minorità è questo: prendere posizione. Uscire presuppone l’atto consapevole di posizionarsi al di fuori di una situazione in favore di un’altra. Come ogni situazione è transitoria: uscire è un andare verso che può essere anche un ritorno. In tal senso l’uscita dalla minorità non è mai una situazione definitiva. Disciplinare, annullare la vita nel suo contrario, è collocare in maniera definitiva, specializzare, definire, porre, costringere entro una determinata e rigida categoria situazionale. È il dire «tu sei», cioè attribuire degli attributi di riconoscibilità.

L’equilibrio è la vita in quanto tale, cioè impossibilità di ridurre all’uno. L’essenza è il modo d’essere, cioè l’individuo composto dalle sue moltitudini, nessuna delle quali prevale definitivamente sull’altro, ma che si contaminano, si sintetizzano dando luogo all’individuo, unica unità che nega l’uno in quanto alterità rispetto ad un’altra unitarietà, quindi binarietà. È come un cerchio che al suo interno accoglie infinite e irrisolvibili direttrici e linee, senza le quali non si darebbe il cerchio. Ma anche il cerchio per esistere presuppone un di fuori e un di dentro, anch’esso composto di moltitudini. L’incerto è elemento costante nella vita.

Il problema esistenziale, quindi, sembra non avere soluzione e l’azione nonostante tutto questo, già sottolineata da Camus, continua ad essere elemento fondamentale assieme a quello delle micropratiche. Elemento fondamentale ma non sufficiente.

Il problema riguarda, essenzialmente, non tanto la verità o un ritorno verso qualcosa, ad esempio uno stato primigenio nella natura. Più che la natura stessa, o in sé per sé, o la verità, è l’autenticità ad essere assente. Abbiamo un problema con l’autenticità. È questo che fa soffrire e rende più soli, ma che soprattutto depista e lascia senza una direzione o un orientamento.

Immagine di copertina a cura di Elia Sampò, potete trovare altre sue immagini a questo link.

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