La rimozione delle statue negli Stati Uniti, in Canada, Francia, Belgio, Regno Unito fino alle polemiche sul monumento a Indro Montanelli a Milano sono al centro di un notevole dibattito transnazionale. Si tratta di casi differenti che meriterebbero analisi distinte ma che sottolineano una cosa: che la storia, la sua narrazione pubblica, non scientifica, è materia viva, vivissima. In una società in cui viene celebrato o criticato, a seconda delle declinazioni, il presentismo sembra essere una vittoria della storia.
Un monumento, come nota lo storico Arnaldo Testi, viene discusso non per la persona che ritrae, ma per il significato che rappresenta. Qualunque statua moderna, da quelle del generale Lee negli Stati Uniti a quelle di Garibaldi nelle piazze italiane, è stata costruita molto tempo dopo che i fatti e/o le persone che rappresenta sono vissuti o accaduti. I monumenti vengono costruiti con uno scopo, che è quello di celebrare e imporre un certo tipo di narrazione civile ai cittadini. È una narrazione astorica, volta a riscrive la storia, perché non racconta la realtà del passato, ma la lettura che ne viene fatta da chi costruisce il monumento. Le statue di Garibaldi, Mazzini e Cavour, ad esempio, sono state costruite quando lo Stato italiano ebbe la necessità di creare una narrazione patriottica per cementificare il senso di appartenenza nazionale. Questi monumenti, quindi, non celebrano chi rappresentano – e non a caso il repubblicanesimo di Garibaldi e Mazzini venne cancellato da queste narrazioni – ma l’unità d’Italia prima sotto la monarchia, poi sotto il fascismo ed infine nella Repubblica creando così una continuità di “spirito” in seno alla Nazione.
Parlare di monumenti è quindi una questione politica, di potere.
Negli Stati Uniti rimuovere le statue degli “eroi” sudisti, costruite alla fine dell’Ottocento quando l’occupazione militare del Nord dopo la Guerra Civile era terminata, è ristabilire una corretta narrazione storica, almeno per gli afroamericani e i nativi americani. Il motivo è molto semplice: quei monumenti celebrano la causa sudista, il razzismo e la segregazione mettendo in essere una narrazione fondata sul suprematismo bianco. Rimuoverle significa quindi eliminare una forma di imposizione pubblica espressione del potere bianco. Lasciarle per “ricordare” il passato schiavista non ha molto senso: per questo ci sono gli storici e, come nota lo storico Alessandro Portelli, non c’è bisogno di una statua di Hitler in Germania per ricordarsi del Nazismo.
Non è possibile, inoltre, accostare la demolizione di monumenti e siti storici perpetrata dal fondamentalismo islamico, come Al – Qaeda e ISIS. In questi casi si tratta di siti archeologici che non esprimono, come le statue di Lee o di Edward Colston, una narrazione volta al suprematismo razziale. Vi è, invece, una contro narrazione storica portata avanti dai fondamentalisti che manifesta una dialettica di potere totalizzante e annichilente: non ristabilire la parità ma eliminare il diverso, cancellando il passato e la cultura considerata non conforme ad una lettura estremista del Corano. Paragonare le proteste per le statue di questi giorni alla demolizione fatta dal fondamentalismo islamico è quindi sbagliato.
Parte delle riflessioni sui monumenti possono essere estese anche alle “tradizioni” e alle feste popolari e/o tradizionali e ai vari pali. Lungi, infatti, dall’essere veramente elementi tradizionali, queste festività sono spesso un’invenzione recente. Sono, cioè, frutto della nascita di comunità immaginate, le comunità nazionali nate assieme allo Stato – Nazione. Queste feste, infatti, riesumano vecchie feste locali medievali o di epoca moderna e hanno lo scopo di definire in limiti precisi la tradizione al fine di farne uno strumento di coesione locale e nazionale del popolo. La tradizione, infatti, è un elemento identitario che dichiara chi si è e da dove si proviene. Le tradizioni e le feste tradizionali sono rielaborazioni astoriche perché non solo riadattano all’oggi, spesso stravolgendone anche le modalità, festività di epoche differenti con una concezione del passato che è anch’essa espressione del clima culturale attuale, ma pretendono di creare una continuità materiale e spirituale tra il popolo del passato e quello del presente. Non è un caso che le tradizioni, i pali e le feste di città, che peraltro laicizzano festività sacre, siano state riesumate dopo l’unità d’Italia e, soprattutto, con il fascismo. Non è detto che oggi sia sempre così, ma vi è in questo un’origine reazionaria, conservatrice e nazionalista.
Le nostre società sono sempre più multiculturali, dei melting pot, in cui inevitabilmente vengono alla luce le tensioni irrisolte di razza e di genere. Il fatto che se ne discuta così tanto dimostra, per l’appunto, che di tensioni irrisolte si tratta. In paesi come Francia, Regno Unito e Belgio, ex imperi coloniali con legami tutt’oggi molto forti con le vecchie colonie ed in cui vivono gli eredi dei vecchi colonizzati, discutere di tematiche come quelle di cui si è parlato non solo sembra inevitabile, ma anche doveroso perché il razzismo, l’antisemitismo, la discriminazione di genere e la violenza della polizia sono effettivamente una realtà. L’Italia sembra sfuggire a questo dibattito globale se non per la discussione sulla statua di Indro Montanelli, nonostante molti monumenti che celebrano il regime fascista e il colonialismo italiano, si pensi allo Stadio Olimpico di Roma, siano presenti in molte città della penisola. Sembra, insomma, che in Italia ci si concentri più sull’aspetto scandalistico – i “vandali” che deturpano i monumenti, la sposa bambina di Montanelli – che sulla presenza di un passato con cui è lecito dubitare si siano fatti i conti, anche per la continuità storica di leggi, istituzioni e persone dal fascismo alla Repubblica, o sull’esistenza del razzismo e della violenza della polizia nel nostro paese. L’impressione è che l’Italia rimanga arroccata in una dimensione astorica, in quanto non cosciente del presente, di identità bianca, priva di tensioni e di un passato che rappresenta tutt’oggi qualcosa di irrisolto.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.