Negli ultimi decenni numero di conflitti armati è aumentato e nel 2016 ha raggiunto il punto più alto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le guerre, inoltre, tendono a durare molto a lungo, spesso di più rispetto al passato, coinvolgendo un numero maggiore di persone, soprattutto civili. Ciononostante le statistiche mostrano che la percentuale dei decessi tra i soldati in guerra è diminuita rispetto al passato. Ciò non significa che la guerra sia diventata meno violenta, ma che il parametro utilizzato per studiare l’impatto dei conflitti sui soldati è ancora quello della conta dei morti.

Dietro al minore numero di morti tra i soldati in guerra stanno molteplici fattori. Innanzitutto i progressi nella medicina e nelle apparecchiature mediche che consentono di arginare con più successo le conseguenze di una ferita potenzialmente mortale. Un secondo elemento, pur se non in ordine di importanza, dipende dalla situazione sul campo: maggiore è il controllo esercitato da una fazione nell’area dello scontro, più è alta la possibilità di salvare i feriti perché possono essere evacuati più facilmente e velocemente. Per incrementare il successo della «golden hour», l’ora cioè in cui è possibile trasportare il soldato in ospedale prima del decesso o che ulteriori complicazioni sopraggiungano, è fondamentale, oltre ad un parziale controllo delle vie terrestri, la supremazia dei cieli perché è il trasporto aereo che consente di essere più veloci. L’assedio in cui si trovarono le truppe francesi durante la Guerra di Indocina (1946-1954) a Dien Bien Phu (13 marzo – 7 maggio 1954), mostra ad esempio che senza il controllo delle retrovie, in una situazione di stallo e difesa per una delle due parti, il numero di morti aumenti a causa dell’impossibilità di fornire tempestivamente le cure adeguate ai feriti. Un discorso simile coinvolse i soldati americani in Vietnam (1964 – 1973) durante l’assedio di Khe Sanh (8 gennaio – 8 aprile). In ambedue i casi, ciò che consentì alle truppe francesi ed americane di resistere a lungo furono i rifornimenti per via aerea. Gli aeroplani e gli elicotteri, incontrando notevoli difficoltà nell’atterrare in pista a causa dei bombardamenti delle forze avversarie, erano costretti a sganciare con dei paracadute il materiale di rifornimento, medicine comprese, riuscendo raramente ad evacuare i feriti. A Khe Sanh questi venivano caricati, quando possibile, sugli elicotteri venuti in soccorso attraverso un’operazione veloce e ad alto rischio: gli elicotteri atterravano, o si fermavano a mezz’aria, lasciando i motori accesi mentre i barellieri trasportavano i feriti il più velocemente possibile, poi l’elicottero ripartiva.

Questi esempi sono utili per mettere in risalto altri due elementi che hanno contribuito a diminuire il numero dei morti tra i soldati: la qualità e l’efficienza delle retrovie (diverso dal controllo dell’area) e l’adeguatezza dei mezzi (elicotteri, aeroplani, ecc.). Le retrovie sono fondamentali perché vi risiedono i due terzi dei militari, preposti al supporto dei soldati sul campo che rappresentano solo un terzo del totale. Con «supporto» si intendono molte attività eterogenee tra di loro: intelligence e coordinamento delle truppe sul campo; strateghi e consulenti d’area; responsabili amministrativi che curano gli aspetti organizzativi e di gestione, ad esempio per quel che riguarda gli approvvigionamenti; esperti in comunicazione; tecnici vari; i medici e gli infermieri che garantiscono la prima assistenza ai feriti. Più le retrovie sono efficienti ed organizzate, più la possibilità di salvare i militari, anche in situazioni di emergenza, è alta. Qualità ed efficienza garantiscono, inoltre, che i mezzi a disposizione siano sempre pronti all’uso, quindi funzionanti e con riserve energetiche adeguate. L’organizzazione delle retrovie, infatti, si occupa anche della manutenzione e dello smistamento dei mezzi, tra cui quelli di trasporto che possono essere preposti alle missioni di soccorso. In quest’ultimo caso non necessariamente l’alto livello di tecnologia garantisce la supremazia, quanto piuttosto l’adeguatezza dei mezzi a disposizione alla conformazione del terreno. Tra i mezzi rientrano, per semplicità, anche le protezioni date ai soldati (elmetti protettivi, giubbotti antiproiettile, eccetera) che, essendo più efficaci rispetto al passato, hanno contribuito a diminuire il numero dei morti.

Ad ogni modo appare chiaro che, per quanto le guerre siano divenute progressivamente meno mortali per i soldati, la violenza e la pericolosità che le accompagnano non sono diminuite rispetto al passato.

Un fattore da tenere di conto è la percezione. Siamo abituati a considerare la Prima e la Seconda Guerra Mondiale come conflitti emblematici, talvolta assieme al Vietnam. In verità nella maggior parte dei casi le cose stanno diversamente: si tratta, spesso, di guerre asimmetriche e a bassa intensità in cui il numero di decessi tra i militari è inferiore rispetto a quanto si crede, pur essendoci delle eccezioni come la Guerra del Vietnam e la crisi siriana. Ciò porta l’attenzione su altri fattori. Innanzitutto il coinvolgimento dei civili i quali, nel corso del Novecento, in particolare con la Guerra Civile Spagnola e la Seconda Guerra Mondiale, sono sempre più colpiti dai conflitti. Non a caso si parla di guerra ai civili proprio per sottolineare come le guerre colpiscono sempre più chi non indossa una divisa. Ciò è dovuto a molteplici fattori, tra cui l’importanza crescente del popolo all’interno dello Stato – Nazione e quindi dell’opinione pubblica come fonte di legittimazione per un regime; la guerra,in tal senso, è totale perché si rivolge alla totalità di una nazione e non solo ai suoi soldati ed implica, anche se non necessariamente, una lotta per un ordine morale; colpire al di fuori dei campi di battaglia significa, inoltre, fiaccare la capacità di resistenza dell’esercito indebolendo i centri di produzione. Le guerre, quindi, sono meno mortali per i soldati, ma non per i civili. Gli interventi militari, inoltre, possono essere messi in atto per pacificare (peace enforcement e peace keeping) o annettere una territorio, si pensi ad esempio alla lunga guerra che coinvolse Regno Unito e Irlanda. Proprio in questo caso per evitare che i militari, i quali avevano anche funzioni di ordine pubblico ed operavano in contesti urbani, potessero provocare la morte dei civili vennero ideate le armi less lethal. Le armi si dividono in tre tipologie: letali; meno letali (less lethal); non letali. Le meno letali sono conosciute anche come riots control ammunition, cioè per il controllo delle rivolte, sono oggi usate da alcune polizie antisommossa, come quella francese e americana, e possono essere fucili con proiettili di gomma, sviluppati per il conflitto in Irlanda del Nord alla fine degli anni Settanta, e granate che rilasciano fumogeni o stordiscono. Chiaramente l’uso di queste armi non diminuisce la violenza della guerra pur abbassando il numero delle vittime.

Un ulteriore problema di cui il parametro della conta dei morti non tiene di conto è quello delle conseguenze psicologiche, come il disturbo da stress post traumatico, che continuano ad avere un’alta incidenza sulle truppe. Questo problema, peraltro, viene spesso sottovalutato anche a causa della carenza di risorse destinate al reinserimento e all’aiuto psicologico dei veterani. Di fatto, nei paesi che più di altri impiegano i militari in zone di guerra, come negli Stati Uniti, in Francia ed Inghilterra, si ha un numero consistente di cittadini che sono addestrati nell’uso della violenza ma che non sempre vengono supportati nelle delicate fasi di rientro dalla guerra. Le ricadute possono essere molteplici: se i reduci vengono assunti nelle forze di polizia l’addestramento e il tipo di servizio prestato possono incidere sul modus operandi; in altri casi i reduci possono essere al centro di episodi di violenza, si pensi ai mass shootings, è il caso ad esempio dell’ex marine Charles Whitmanche nel 1966 sparò dalla torre dell’università di Austin uccidendo sedici persone e ferendone cinquanta; in altri casi i problemi derivano dal reinserimento nella vita quotidiana e talvolta è la società stessa ad emarginare i reduci. È ciò che successe ai militari di ritorno dal Vietnam, come testimonia il romanzo di David Morell (1972) e poi film (1982) Rambo: first blood, criticati perché «i primi americani ad essere sconfitti» oppure perché erano visti come «coloro che hanno invaso il Vietnam»; storia dei reduci e dei problemi di reinserimento che, peraltro, è raccontata magistralmente nel libro The Things We Carried (1990) di Tim O’Brien. In altri episodi ancora i reduci possono rendersi responsabili di omicidi, come nel caso dell’ex Navy Seal Chris Kyle ucciso al poligono di tiro dal veterano Eddie Ray Routh nel 2013, la cui storia è diventata famosa grazie al film di Clint Eastwood American Sniper(2014).

Pur essendo diminuito il numero di soldati morti, ancora oggi le conseguenze dei conflitti rimangono un grave problema difficile da gestire. Inoltre, le spese per la difesa rimangono molto alte anche a causa della deterrenza che, nonostante sia radicalmente mutato il contesto rispetto alla Guerra Fredda, continua ad essere un fattore rilevante. La deterrenza è un sistema potenzialmente fallibile e sottostimare questa possibilità credendo che le guerre siano meno mortali può essere un grosso rischio, tanto più che se un conflitto tra potenze (e non) fosse oggi in atto verrebbero, con molta probabilità, impiegate armi chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari che aumenterebbero enormemente il numero dei morti tra i civili e i militari.

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