L’Italia non è un paese per giovani: lo testimonia il fatto che, secondo l’Istat, più del 50% di chi ha tra i 18 ed i 35 anni va a vivere all’estero. Alle origini di questo esodo sta l’impossibilità di progettare un futuro in sicurezza e, soprattutto, il dover sottostare all’autorità di chi è più anziano.
Il tessuto socio – culturale ed economico italiano tende infatti alla conservazione di una gerarchia che favorisce la centralità dei più anziani, si pensi ad esempio al basso ricambio generazionale sul lavoro rispetto alla media europea. Conservare questa gerarchia significa preservare l’autorità, quindi il potere, di determinate figure non sempre le quali sono consapevoli di questa disparità di condizione. La presenza della gerarchia la si nota, inoltre, nel fatto che sovente le competenze che all’estero sono ritenute sufficienti per accedere ad una determinata professione in Italia non lo sono. Detto in altri termini, nella penisola si cerca di rimandare l’inserimento nel mondo del lavoro, dell’autonomia abitativa ed in generale l’indipendenza dei giovani dal tessuto familiare. Il ruolo della famiglia è centrale all’interno di questo discorso poiché persino lo Stato vi fa costante affidamento: le pensioni sono infatti elemento centrale dell’economia familiare italiana, rendendo così dipendenti i figli dai genitori anche quando ormai hanno una propria famiglia – il che impedisce ai pensionati di godere della propria pensione pienamente.
Se tutto ciò rafforza il potere di determinate figure, non consente anche di progettare un futuro con sicurezza e libertà, rendendo la società italiana chiusa in sé stessa e scarsamente innovativa. Le conseguenze sono gravi e molteplici: non essendo mai totalmente indipendenti dalla famiglia e dalla precarietà si deve rinunciare a progetti, accontentarsi nelle scelte e scendere a dei compromessi che non rispecchiano le aspettative dei sacrifici fatti; ciò alimenta l’emigrazione con il risultato che non vi è equilibrio tra chi va a vivere all’estero e chi sceglie di rimanere in Italia; conseguenza ulteriore è la creazione di un bolla fondata sull’autoreferenzialità e la convinzione che il modello italiano sia il migliore. È un contesto di omertà e orgoglio che tende anch’esso a preservare l’autorità e la gerarchia poiché chi prova a criticare riceve spesso una risposta: «se non ti piace perché non te ne vai?». Un contesto in cui i giovani vengono costantemente trattati come eterni bambini o adolescenti, la cui opinione è di scarsa rilevanza e che vanno sempre educati anche se hanno una famiglia, delle lauree e hanno vissuto all’estero. Questo perché in Italia ci sarà sempre qualcuno che la sa più di noi giovani: chi, nonostante gli studi che abbiamo fatto, ha dalla sua il sentito dire e la saggezza popolare; chi parla dall’alto del proprio ruolo familiare; chi perché è uomo e tu sei donna – per le donne è, effettivamente, questo un problema ben maggiore che per gli uomini.
L’indipendenza dei giovani, la loro autonomia rispetto al nucleo familiare e sociale, spaventa la società italiana perché porterebbe a dei cambiamenti, a delle innovazioni, ad aprirsi verso il futuro. In tutto questo l’assenza dello Stato è preoccupante. Ne abbiamo già parlato in diversi articoli in passato: rispetto al resto d’Europa l’Italia ha uno dei peggiori sistemi di welfare e di sussidi per i giovani (qui per un confronto con la Francia). In questo, è poi da non sottovalutare l’allarmante assenza dei sindacati, ormai spesso difensori dei diritti dei pochi e incapaci di tutelare i diritti di tutti i lavoratori. Il lato oscuro della questione riguarda infatti la conservazione del potere economico. L’assenza di tutele da parte dello Stato, l’impossibilità di essere flessibili e di poter scegliere diversi lavori nella propria vita, la precarietà del lavoro, la mancanza di una reale corrispondenza tra gli studi fatti e la professione desiderata, sono tutti elementi che prostrano i giovani in uno stato di aspettativa e necessità per cui il lavoro diviene non più un elemento della vita attraverso cui realizzare la propria autonomia, ma elemento di subordinazione. «Beggars can’t be choosers» (i mendicanti non possono scegliere), recita un proverbio inglese sottolineando come chi è in uno stato di necessità sia privato della propria libertà di scelta. Libertà che, nel contesto fino ad ora descritto, si traduce nella soppressione della fantasia e dell’intraprendenza, nella frustrazione dei sogni e dei progetti, nella progettualità di un futuro diverso da quello attuale. Di fatto i giovani (ma anche i non giovani) sono schiavi del lavoro prima ancora di entrare nel mondo del lavoro: essi vivono per lavorare, studiano per lavorare, pensano per lavorare. È l’ipocrisia di una Repubblica che si dice fondata sul lavoro, ma che si è in verità istituita sull’autorità dei più anziani e degli uomini sulle donne, sul potere dell’economia sull’individuo.
Immagine di copertina a cura di Elia Sampò, potete trovare altre sue immagini a questo link.
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Cofondatore de L’Eclettico e dottorando in Scienze Storiche nelle Università di Firenze e Siena. Sempre con lo zaino in spalla. Tra un trekking e un altro scrivo per diverse realtà. Sono uno storico delle mentalità e delle relazioni internazionali. Mi occupo di esteri, soprattutto USA e Francia. Pubblico racconti qua e là. Ogni tanto parlo alla radio e in alcuni podcast. Non ho vissuto sempre dove vivo adesso, ma ho sempre avuto la mia chitarra e la letteratura al mio fianco. Ho fatto una scelta di parte: parlare di giovani e oppressi, criticando l’alienazione e lo sfruttamento sul lavoro.